Posso sostenere di conoscere bene (artisticamente) Rossana Casale. Sono nata nel 1970 e quando lei appariva bionda e bellissima, che reggeva un contrabbasso sulla copertina in bianco e nero dell’album Incoerente Jazz, avevo 19 anni, ero già completamente immersa nel mondo del jazz, al quale mio padre chitarrista jazz mi aveva iniziata, suonavo il pianoforte, e quella musica che per me è sempre stata “la Musica”, era in cima alle mie passioni. Io quel vinile lo possiedo e lo custodisco con cura, perché fu il segno distintivo di un’artista italiana che era molto più jazz di tante cantanti jazz dell’epoca. Di quell’album conservo il ricordo vivido di ogni parola cantata, di ogni nota e di quegli arrangiamenti che ad ascoltarli oggi, ti domandi dove sia finita la genialità di quegli anni e di quei musicisti, visto che in giro, ahimè non ce n’è poi tanta.
Lei brava, riconoscibile e bella.
Tre caratteristiche difficili da dimenticare e da smontare.
Poi il resto lo fanno le scelte che si compiono, i musicisti con cui realizzi progetti e il proprio carattere.
Nel corso degli anni l’ho tenuta d’occhio, ho ascoltato quello che avesse da dire (artisticamaente) e poi ieri sera sono andata a sentirla. Avevo nostalgia. Nostalgia degli anni in cui la scoprii, nostalgia del suo modo di cantare il jazz, e di quel sorriso che ha sempre reso tutto perfetto, tutto rotondo, tutto impeccabile.
Ieri sera al Palacultura di Rende, nell’ambito della rassegna del “Settembre Rendese” Rossana Casale si racconta nell’abito che le è forse sempre calzato meglio. Lo fa in compagnia di tre musicisti di talento, Giuseppe Santelli al pianoforte, Salvatore Calabrese al contrabbasso e Fabrizio La Fauci alla batteria. Lo fa attingendo alle sue radici jazz quelle che hanno influenzato tutta la sua carriera anche quando ha calcato il mondo del pop. Lo fa con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere, con la libertà che spetta a chi della musica ne ha fatto una ragione di vita, ma senza l’ossessione della perfezione a tutti i costi.
Ringrazia il pubblico che è intervenuto, sottolinea le difficoltà del suonare in questo periodo di restrizioni e il coraggio di esserci, malgrado tutto, malgrado le tante restrizioni.
Un concerto di 40 minuti, una carrellata di standard, omaggio a Billie Holiday, a Monk, alla Fitzgerald.
E’ leggiadra la Casale, chiudo gli occhi e riconosco la sua voce, il suo falsetto dura ancora, lo scat le è ancora congeniale. Io ho i brividi, lei un feeling prezioso con i suoi musicisti; dà loro gli attacchi, ne sbaglia uno e ricomincia. E’ ferrata in materia la Casale, è calata a pieno nelle parole dei pezzi che regala; “Good morning honey“, “Comes Love“, “Lullaby of Birdland“.
“Ruby my dear” è solo nell’atmosfera piano e voce. La Casale ama ancora regalare emozioni, e non importa se ci sono alcune imperfezioni nel suo cantato; lei conserva la verve di chi nella musica si immerge per poi tornare al mondo soddisfatto e consapevole.
Durante il bis incomincia a cantare e poi si ferma rimproverando delle persone in prima fila perché avevano in mano il telefono. Ferma tutto e inizia la polemica. In prima fila c’è una giornalista di settore, che le ricorda come ognuno deve poter fare il proprio mestiere e che il lavoro di chi fa il mestiere dell’artista, necessita di chi racconti cosa accade, tanto quanto dell’applauso, se arriva.
Io personalmente mi aspetto che un artista salga su palco e canti, a prescindere da quello che succede in sala. Perché ci sono serate come ieri sera, nella quale sfidando cattivo tempo e restrizioni varie, c’è chi ha scelto di essere lì, per assistere ad una performance e per far vivere e pulsare il circuito della musica che innesca una sorta di osmosi che trasporta emozioni, sensazioni e voglia di far ritorno a casa con una piccola consapevolezza. La mia è stata che la Casale con quella polemica abbia rovinato tutto, abbia spezzato la magia e la tenerezza che in me era sorta accompagnata da una piccola commozione, mentre constatavo di essere invecchiata, mentre la Casale sembrava avesse sfidato il tempo che passa, tagliando solo un po’ i suoi riccioli biondi conservando in sé la linfa vitale delle radici del jazz.
Simona Stammelluti