Il Teatro nella “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne“.
Il Teatro.
La sua forza comunicativa; alla radio però.
La radio, quella di Radio3, dalla quale esce un testo, “Barbablù” che non si dimentica; un testo pazzesco, magistralmente diretto.
Un monologo, per la prima volta in Italia.
E poi una voce.
Una voce che, quando non ti è concesso utilizzare la vista, amplifica ogni sensazione e non concede distrazione alcuna.
Una voce straordinaria, baritonale, quella dell’attore Tommaso Ragno, che ti affascina, ti perseguita, entra dentro di te, ti tortura, spalanca le tue paure più recondite e che ti inghiotte, costringendoti a guardare da vicino, ma ad occhi chiusi, la personalità di un serial killer.
Il testo è quello scritto da Hattie Naylor, scovato e tradotto da Monica Capuani, e diretto da Veronica Cruciani che ne ha curato la regia. Tre donne, non a caso, che si immergono completamente dentro le manie, la psicosi, l’egocentrismo, il narcisismo e le imprese erotiche di un uomo che le donne le selezione, le irretisce, le violenta, le annienta e le uccide.
Un monologo curato da donne capaci di guardare in faccia la ferocia di un uomo che come il Barbablù della fiaba, pensa di non aver nulla da perdere, che agisce e si esalta dentro le sue gesta e che non immagina quel finale.
La regista, Veronica Criciani, dirige il monologo parlando principalmente agli uomini, senza paura, mostrando quella forma di protagonismo becero che abita coloro che inneggiano al sesso e alla violenza come ad un atto eroico, sceglie di dar voce al personaggio che nella storia si registra, parla ad un microfono e poi si riascolta esaltando la follia dei suoi gesti e delle sue gesta.
Parla all’ “io” debole e compassionevole di chi non sa reggere il peso del vivere e desidera la fine, di chi pensa di non avere valore e quindi di trovare riscatto nell’essere annientato e maltrattato.
Un linguaggio, quello usato che è scurrile, truce, che non fa sconti, che è offensivo ma dentro il limite massimo consentito.
Un linguaggio che però contempla la possibilità di chiamare “le sue loro” i seni, “rossa” la vagina, e “granito” il membro maschile.
Una descrizione di particolari che riguardano la scelta delle vittime, Susan, Annabel, Judy, l’approccio, la seduzione (quando serve) il rapporto di sesso, la violenza, la tortura. A volte la morte, a volte no. Giovani, meno giovani, insicure, a volte fragili e quello scambio di povertà interiore che si scatena ed esplode quando la realtà perversa, si scontra con un passato che ha costruito la vita, le sensazione, la natura, le sofferenze e le debolezze di un criminale che uccide, e poi reitera perché sa esistere solo così.
La donna non è mai descritta nel suo insieme come se si volesse ignorare la sua personalità, il suo completo “essere”. La donna è raccontata solo per dettagli, quelli comuni a tutte, che non sono segno distintivo di una scelta.
Ogni respiro, dell’attore, ogni intonazione, è una dimensione dalla quale si vorrebbe scappare, ma che al contempo è trasbordante di fascino. Brava la regista a costruire quelle intenzioni nelle quali si vuole restare, malgrado la tragicità di una storia che per quanto orrenda, consegna un lieto fino, così come nella fiaba.
Perché la bellezza di questo testo risiede nella forza di una delle tante donne che incontra sulla sua strada “barbablù”, ma che non soccombe perché riconosce il suo interlocutore, conosce quel mondo e non vi cede, riconosce il mostro e porta a compimento un riscatto nel quale, annientando l’aguzzino, racconta la forza del mondo femminile, della positività di riscatto, della volontà di non abbassare la guardia.
Dettagli del monologo, sono stati disegnati e ricamati così bene dalla regista, che sono da applausi a scena aperta. Come quel finale, in cui il mostro sposa una delle sue tante vittime, quella che più calza a pennello con il suo desiderio si soggiogare, colei che non vuole mai sapere nulla, che si lascia fare qualsiasi cosa, ma che mossa dalla curiosità, varca la porta della stanza della crudeltà.
E non sarà però come nella fiaba, dove a salvare l’ultima moglie di Barbablù sarà un fratello coraggioso, ma una zia, che al criminale non lascerà scampo ma solo 11 secondi per realizzare che è finita. Un proiettile che lo annienta, lo ferisce a morte; un proiettile che attraversa il tatto, l’odorato, la volontà, la memoria, l’empatia, la vista, il colore, la luce, il buio. Tutto finisce in quel luogo dell’orrore, in quella stanza dove lui si è sempre sentito invincibile, lì dove a soccombere, quella volta è lui, con tutto il suo ego che lo ha reso un mostro accattivante, dentro il suo maledetto paradiso.
La conta di quegli 11 secondi che lo separano dal buio, dalla morte, che lasciano sospeso l’orrore, prima che precipiti, esaurendosi per sempre.
Un’opera diretta con la maestria di chi sa bene dove si vuole andare, come raggiungere il pubblico, come colpirlo nella coscienza, con la costruzione di un personaggio, che è uguale a quelli raccontati dalle cronache ma che mostra, la forma di una crudeltà che alla fine, non trova scampo.
Simona Stammelluti