Questa è la storia della frana di Agrigento. Una storia che molti sconoscono, e che a distanza di quasi 60 anni è bene ricordare, perché se la città oggi si ritrova con un piano urbanistico complesso, con delle frazioni prive di qualunque servizio, prive di collegamenti con il centro, con uno stesso centro storico abbandonato, con decine di grattaceli che sono un vero e proprio pugno in un occhio per il volto storico di Girgenti, ebbene è tutto da attribuire a quella maledetta frana, e ai costruttori, che per loro interessi di tasca, hanno rovinato la storia della città più bella tra i mortali.
Sono già trascorsi 58 anni da quel lontano martedì 19 luglio del 1966. Una calda giornata di metà estate, iniziata molto presto per la città dei Templi. Gli agrigentini residenti nella parte occidentale della città infatti, già alle 6 del mattino furono svegliati da un tale, di nome ciccioFarruggia, un netturbino, che stava lavorando presso la Via Dante, il quale aveva allarmato un intero quartiere. “U terremotu, u terremotu” urlava. Le grida di quell’uomo, misero in salvo decine di migliaia di vite. Una gigantesca frana, aveva appena messo in ginocchio la città di Agrigento.
Ma cosa accadde nello specifico quella mattina? Da cosa fu causata quella frana che rase al suolo mezza città e causò più di 8mila sfollati?
Agrigento, per sua natura, nasce su un territorio formato prevalentemente da calcarenite arenaria, il comune tufo. Ma poggia le sue basi sopratutto su terreni costituiti da argilla e sabbione. Zone quindi poco adatte alla costruzione di edifici. Di tutto ciò ne erano già a conoscenza i tecnici delle Ferrovie dello Stato, che il 15 settembre 1925, durante la costruzione della galleria che collega la stazione di Agrigento Centrale con quella di Agrigento Bassa si erano accorti di tale situazione. Nello specifico, veniva evidenziato che il tronco della galleria, in corrispondenza dell’ex convento del Carmine, oggi palazzo dei Mutilati, veniva a trovarsi contro un banco tufaceo non perfettamente compatto. Dalla progressiva 1640, la galleria si addentrava in uno strato di argilla pliocenica costituita da lame liquide di correnti subalvee. Al che, gli addetti ai lavori dovettero puntellare il tutto, anche se vanamente, tanto che edifici come lo stesso convento ed annessa chiesa del Carmine vennero rasi al suolo a causa del sostegno che venne meno e dei forti scivolamenti del terreno, costituito da riporti di humus misti e terricci disgreganti.
Dunque già, nel 1925, dei tecnici avevo messo nero su bianco che la città di Agrigento presentava forti criticità sul piano statico. Relazioni che si rivelarono carta straccia, visto che vennero subito archiviate.
Ma torniamo alle cause che determinarono la frana. Agrigento, nel 1943, usciva dal secondo conflitto mondiale in situazioni critiche, non soltanto dal punto di vista economico e sociale, ma sopratutto da un punto di vista edilizio urbano. Si infatti, i bombardamenti alleati avevano distrutto parte del centro abitato. Circa 7526 vani abitativi erano crollati o parzialmente inagibili. Intere famiglie si ritrovarono senza un tetto su cui stare.
Il 28 febbraio 1944, una frana di modeste dimensioni colpisce la parte nord di Agrigento. L’epicentro dell’evento franoso è piazza Plebis Rea, meglio conosciuta come Bibbirria, e la faglia si estese tra la via delle Mura e la via Giardinello, attraversando il seminario e colpendo proprio la galleria ferroviaria, dove erano state evidenziate anni prima criticità statiche del terreno.
Nel 1945 Agrigento viene inclusa nell’elenco dei centri sinistrati dagli eventi bellici. Tra il 1947 e il 1948 la Soprintendenza ai Beni Culturali inizia a stilare una serie di elenchi delle bellezze da vincolare in città. Solamente nel 1953, tramite decreto ministeriale, Agrigento viene obbligata a redigere un piano di ricostruzione. Vengono incaricati Del Bufalo, Granone e Biuso. Un anno dopo i progettisti consegnarono il piano, che al tempo prevedeva due zone di espansione. La prima a sud/est verso la valle, e la seconda a sud/ovest l’odierna via Dante. Zone destinate ad alta edilizia intensiva, con massicci sventramenti del terreno.
Nel 1955 iniziano le polemiche per le nuove costruzioni, che nascono spesso senza licenza edilizia, con altezze spropositate rispetto a quelle che prevedeva lo strumento urbanistico dell’epoca. Nei primi mesi del 1958, un’altra frana si verifica in via Giardinello, alla Bibbirria, ma di minor rilevanza rispetto a quella del 1944. Di questo evento calamitoso però, non vi è traccia negli archivi comunali. Nel 1959 si costruiscono 1440 vani. L’anno successivo nasceranno i palazzi Vita e Riggio, con altezze superiori ai 50 metri, cosa che l’art.32 del regolamento edilizio precedentemente non consentiva.
Nei primi anni ‘60, la stampa nazionale inizia ad interessarsi della situazione in città. Giornali come il Corriere della Sera titolavano “Caos edilizio dilagante ad Agrigento”. In effetti, si stava assistendo sempre più alla costruzione di nuovi edifici, molti dei quali privi di concessione edilizia, non coerenti con quello che era il tessuto originario di Agrigento. La nuova città infatti, doveva nascere “A gradoni” sulla sua mezza costa, senza che nessuna costruzione inceppasse la vista delle costruzioni retrostanti. Ad Agrigento giorno dopo giorno veniva inghiottito un pezzo della città vecchia, per far posto alle nuove costruzioni in cemento armato, senza che l’agrigentino però chiedessi tutto ciò. La popolazione, difatti poteva permettersi solo in parte un appartamento all’interno dei nuovi ciclopici palazzoni. Chi poteva farlo era solitamente la classe borghese, che molto spesso coincideva con gli stessi costruttori, che si riservarono loro gli ultimi vani in cima alle nuove costruzioni.
Mentre rispettivamente nel 1960 vengono costruiti 1706 vani e nel 1962 altrettanti 2965, nel 1963 l’antimafia inizia anch’essa ad interessarsi dell’abuso edilizio che si sta perpetrando in città. Viene condotta un’ispezione straordinaria presso il comune. Gli esiti di quell’inchiesta, condotta dal vice prefetto Di Paola e dal maggiore dei Carabinieri Barbagallo sono agghiaccianti. Veniva evidenziato che molti lavori venivano avviati senza regolare licenzia edilizia, e continuati anche dopo l’obbligo di sospensione, che le altezze quasi sempre erano difformi dal progetto originario, che sia per le costruzioni abusive che per le sopralevazioni, il comune concedeva costantemente sanatorie e condoni edilizi dietro pagamento di cifre irrisorie, e poi infine, lo stesso comune concedeva autorizzazioni alla fabbricazione in aree con vincolo di tutela.
Quello era stato messo in luce da Di Paola e Barbagallo era alquanto inquietante. Ad Agrigento si costruiva in barba alle leggi, centinaia di colate di cemento avevano inghiottivo il volto antico della città, senza che nessuno avesse opposto resistenza. La classe politica era corrotta dai costruttori, che giorno dopo giorno sventravano l’antica Girgenti. Ma la natura ad un certo punto si ribellò. Era il 19 Luglio dell’anno 1966.
Il 19 Luglio del 1966 cadeva di martedì, un giorno come tanti altri. Gli agrigentini erano ancora inebriati dai festeggiamenti in onore di San Calogero. Il caldo era torrido. Alle 6 del mattino circa un netturbino, Francesco Farruggia, mentre stava prestando servizio nei quartieri a sud/est di Agrigento, vide delle fenditure comparire sui piani viari. Allorché si mise ad urlare “U terremotu u terremotu, nisciti tutti ca stati murennu, i palazzastannucadennu u terremotu.” Centinai di famiglie così, si riversarono in strada. È a questo che si deve se i crolli non hanno causato vittime. Alle 7 l’intera area compresa tra la via Garibaldi, la via Santo Stefano, la discesa Porto Empedocle e i rioni limitrofi era ormai evacuata. Alle 7,10 una telefonata avvertiva il nucleo operativo e radio mobile dei Carabinieri che il terreno si era improvvisamente aperto a nord, nella zona del Duomo. Nel frattempo, altre pattuglie avevano raggiunto la zona a sud. Alle 7 e 15 il sussulto. Un’immensa nube si levò sopra i quartieri occidentali della città di Agrigento. Una vasta area compresa tra via Dante, via Santo Stefano, via Porto Empedocle, venne inghiottita dal terreno, mentre la faglia saliva verso nord, distruggendo il rione Santa croce, radendo al suolo quasi tutto l’abitato di quella zona, tagliando in due la Cattedrale ed il suo costone, fino ad attraversare la Bibbirria e terminare nella zona di San Michele, centrando e distriggendo l’omonima chiesa. La gente nel frattempo, scesa in strada, era sconvolta. La notizia della frana fece subito il giro della città. E ci mise ben poco a raggiungere il resto d’Italia. I mass media riportavano notizie di morti, ma fortunatamente il caso volle che nessuno perì sotto le macerie, e che si registrassero solamente 8mila sinistrati. Nei giorni a seguire quell’evento franoso, in città arrivarono l’allora capo dello Stato e il presidente del Consiglio. “È assurdo” sussurrava Saragat visitando i luoghi della frana. Se da un lato si tendeva la mano agli 8mila sfollati che furono subito collocati in delle tendopoli sotto il viale della Vittoria, dall’altra parte c’era rabbia e amarezza per quanto successo in città.
Nei giorni a seguire la frana, l’opinione pubblica mondiale mise in luce quanto si era perpetrato per anni in città, fin ad arrivare a quell’evento. Molti si domandavano come la classe politica, avesse potuto permettere agli impavidi costruttori di distruggere un’intera città. Ma con il passare dei giorni, i riflettori si andarono spegnendo, e l’Italia dimenticò subito quanto fosse accaduto in quella piccola cittadina del sud Italia.
Il 30 Luglio 1966 il Consiglio dei Ministri emana il decreto legge nr.590, passato alla storia come il decreto “Gui Mancini”, ovvero la perimetrazione della zona archeologica della Valle dei Templi. Decreto volto a tutelare quell’ultima porzione di terra dalla speculazione edilizia selvaggia. L’otto ottobre dello stesso anno si concluse l’indagine amministrativa condotta dalla Commissione Martuscelli che venne poi consegnata nelle mani del ministro ai lavori pubblici, l’allora socialista Giacomo Mancini. “Gli uomini in Agrigento hanno errato, fortemente e pervicacemente sotto il profilo della condotta amministrativa. Il danno di questa condotta, si è tradotto nell’evento franoso” era la sintesi di quanto veniva letto nell’indagine.
L’ultimo atto di sussulto della città si ebbe il 20 dicembre del 1966. Una protesta fu messa in campo dai costruttori della passata stagione della speculazione edilizia selvaggia, i quali tentarono di abbattere con delle ruspe il portone del palazzo di città, mentre i sinistrati, i commercianti e gli artigiani messi in ginocchio dalla frana invasero il palazzo del genio civile, distruggendo il tutto, e bruciando decine di centinaia di incartamenti. L’ultimo atto di protesta di una città in preda ad una grave crisi economica e sociale.
Nel 1968 si ritorna a costruire. Nasce la frazione di Villaseta, che andrà ad occupare tutti i sinistrati della frana. Al contempo si ampliò la frazione balneare di San Leone, nacque il Villaggio Mosè, e piu tardi i quartieri a sud di Monserrato e a nord di Fontanelle. Frazioni totalmente disconnesse dal tessuto urbano, che fecero in modo che il centro di Agrigento si spopolasse, e che l’antico centro storico venisse totalmente abbandonato. Infine, nei quartieri della frana, venne costruito il parco icori o dell’addolorata, da sempre in stato di abbandono, che coprì totalmente le cicatrici del passato evento franoso.
La frana negli ultimi anni ha ripreso a muoversi. Ha minacciato più volte la cattedrale di Agrigento, che a più riprese è stata costretta a chiudere per poi riaprire, ma solamente per piccoli periodi. Con gli ultimi interventi di consolidamento, si spera di bloccare quanto meno lo scivolamento del colle.