Sono a loro volta vittime, vittime della maleducazione, della mancata cultura, della mancata capacità dell\’utilizzo della parola. Perché quando non hai le parole, quando non sai gestire quello che ti si muove dentro, urli, usi le mani, pensi che la violenza sia l\’unico modo per \”mettere a posto le cose\”, anche quando sei tu, ad aver sbagliato.
E così un sedicenne frattura il cranio ad un uomo, colpevole solo di essersi trovato nel posto sbagliato, ossia nell\’auto davanti ad una famiglia composta da padre, madre e figlio, che già litigavamo animatamente nella loro vettura e che distratti, hanno tamponato quella davanti.
Un sedicenne che scende dall\’auto, e che per \”sistemare la faccenda\” – dopo che sua madre aveva già inveito verbalmente e con veemenza contro l\’uomo alla guida – incomincia ad usare letteralmente la violenza, prima a parole e poi alzando le mani, colpendo l\’uomo in pieno volto; mentre i suoi genitori non gli dicono nulla, lo lasciano fare, come se quella fosse la cosa più normale del mondo. E quando nessuno ti ferma, quando i tuoi genitori non intervengono, cresci convinto che quello sia l\’unico ed efficace modo di \”risolvere il problema\”.
La moglie dell\’uomo adesso ricoverato all\’Ospedale di Torino in prognosi riservata, senza nessun rancore, a voce pacata (come dovrebbe sempre essere), ma colma di dispiacere per l\’accaduto dichiara ai giornali che \”a quel ragazzo non serve il carcere, serve un\’altra famiglia\”.
la signora Manuela, chiede solo che la rabbia e la maleducazione vengano sostituiti dalla gentilezza e dalla cultura.
Ha ragione.
Perché a quel ragazzo sedicenne, che potrebbe essere il figlio di ognuno di noi, serve essere educato non solo alle regole, ma anche alla gestione delle emozioni. E per fare tutto questo serve un ambiente che sia adatto alla formazione del giovane che poi sarà un adulto domani e che si trascinerà dietro tutte le problematiche culturali ed emozionali rimaste irrisolte.
Siamo tutti un po\’ stufi della rabbia.
L\’utilizzo delle parole deve essere una pratica alla quale allenarsi, perché l\’allenamento alla parola gentile, usata come piuma è una strada che porta alla gentilezza, alla convivenza sana. L\’isteria è la fine del discorso civile. Non ho le parole adeguate, non le so usare e allora sfogo ogni frustrazione, senza buonsenso, lo stesso che ogni genitore dovrebbe usare, nell\’educare i propri figli.
Ai ragazzi manca l\’essere ascoltati, ma manca anche un\’idea di futuro, una passione, una voglia di fare. Eppure a molti non mancano i soldi per ubriacarsi il sabato sera, per l\’acquisto di droghe di vario genere, e questo è significativo del fatto che vi sia un reale e distruttivo disinteresse verso quelle che sono le esigenze di un adolescente, come quello protagonista della storia di violenza che si è consumata nelle scorse ore.
Una ricerca del Censis restituisce un dato inquietante: nel 2050 solo il 25% della popolazione vorrà fare figli.
Questo dato inquieta, perché nasconde quasi il desiderio di volersi estinguere. E questo significa che fa paura il tempo, il futuro, avere delle emozioni.
Oggi i giovani temono anche molto il giudizio che arriva da svariate fonti. Giudizio nell\’ambito familiare, scolastico, o dai social. Ma il giudizio è la necessaria valutazione che serve per orientarsi in un mondo in cui le regole, i voti, i giudizi (usati per migliorare e non per offendere) servono a spronare verso un miglioramento che è sempre possibile.
Pier Paolo Pasolini diceva che \”quando un ragazzo sbaglia, per il metà è colpa sua, per l\’altra metà è colpa dei padri\”. Dei padri, non del padre, perché educare non è solo compito del padre di famiglia, ma della società civile, che ha delle colpe e delle responsabilità e che dovrebbe dare l\’esempio. Parlare, interagire, domandare e ascoltare le risposte. Non ci si deve mai adagiare nella calma piatta, che poi è solo calma apparente.
E allora il senso di colpa e di fallimento non deve essere solo del genitore singolo – come quello che sta uccidendo i genitori di Turetta che hanno rifiutato di incontrare il loro figlio in carcere – ma di un intero tessuto sociale che spesso si gira dall\’altra parte, che prova a cancellare un disagio che esiste e che – caro Salvini – non si risolve con il carcere (che per le aggressioni aggravate è già previsto) ma con l\’educazione e la sensibilità.