Di questo film, la storia di Federica Angeli – la giornalista di La Repubblica che ad oggi ancora vive sotto scorta perché minacciata dalla mafia di Ostia – avrebbe potuto benissimo farne a meno. Un film che non solo è privo di pathos ma che non rende assolutamente giustizia al coraggio della Angeli, al carattere della giornalista d’inchiesta e alla tenacia del suo vivere.
Un film quello di Claudio Bonivento, assolutamente didascalico, semplicistico, fatto di frame incollati; un’accozzaglia di momenti, messi insieme come se si dovesse portare a casa un compitino. Una Claudia Gerini nel ruolo della Angeli che probabilmente ha fatto del suo meglio, mentre mima una vita che è difficile da trasportare in un film se non sorretta da una sceneggiatura solida, e che invece in questo caso fa acqua, ha degli enormi buchi nel racconto, rendendo non credibili alcuni dialoghi, e banalizzando quelle situazioni drammatiche che hanno visto Federica Angeli sfidare, nella realtà, il clan degli Spada.
Pur conoscendo molto bene la storia della Angeli – sulle cui vicende ho scritto tanti articoli, nella piena volontà di dare il giusto rilievo ai fatti, alla verità, alla vita della giornalista – mi sono immedesimata in chi quella storia non la conoscesse affatto. Anche la malavita è raccontata in maniera poco incisiva nel film e mi domando perché la Angeli, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura non si sia ribellata a quelle scene così misere, semplicistiche. Mi riferisco ai momenti clou della storia, quando per esempio viene sequestrata, minacciata di morte, e quando le viene intimato di lasciar perdere. E quello è uno dei momenti più toccanti che sono accaduti, quando la giornalista ha raccontato la sua vicenda nelle scuole, o durante i convegni. Momento toccante quando lo ha raccontato alle TV in innumerevoli trasmissioni.
Già il libro – che merita un plauso sicuramente perché è un documento di denuncia – mi era apparso particolarmente romanzato. E dunque questo finale – il film intendo – diventa un inutile tentativo di osannare la donna, non il suo ruolo nella vicenda. E se si pensa che il film è tratto da una storia vera, mi viene da dire che se ci fosse stato un “liberamente tratto” nei titoli di coda, sarebbe stato meglio.
Il film ha l’aspetto di una fiction figlia di mamma Rai, di quelle da prima serata di fine stagione.
Il film non a caso è stato prodotto dalla società di produzione Laser Digital Film insieme a Rai Cinema. Le performance attoriali sono scarse, forse anche perché le parti assegnate non erano adeguate. Francesco Pannofino relegato in quattro battute nel ruolo del caporedattore, Francesco Venditti che interpreta il ruolo del marito della Angeli, che non convince neanche nella scena di sesso quando fa una sorta di “agguato” a sua moglie che rientra a casa tardi prima delle vicende che la renderanno nota alle cronache. Lo stesso Mirko Frezza, sguaiato ma non credibile nel ruolo del boss. E’ un film claustrofobico anche per i set che sono stati utilizzati, e per le luci.
Il film si svolge tra l’appartamento della Angeli, la redazione del giornale e il giardinetto dove i figli della giornalista sono soliti giocare. Non si vede cosa accade ad Ostia, non si vede Ostia. Una sola scena del mare e due passaggi, che dovrebbero raccontare la malavita: giornali bruciati ad una edicola e la richiesta del pizzo alla proprietaria di un bar che – non si può non notarlo – ha una somiglianza spaventosa con quella che è stata per molti anni, la sostenitrice numero uno della Angeli nella vita vera. La mafia ostiense, banalizzata con un film, per non parlare dei carabinieri che tentano di dissuaderla da sporgere denuncia verso chi l’ha minacciata di morte. Non si vede la vita nella redazione, non si vede cosa pulsa nella città di Ostia, non si raccontano la paura, l’omertà, i giri spietati tra le fila dei colletti bianchi; insomma … mancano intere tappe che erano invece necessarie per la riuscita del film. La semiotica del testo filmico ridotta all’osso. Il film parte con una anacronia, una analessi a caso, per poi tuffarsi in un incipit in medias res così banale da non essere credibile.
Neanche la fotografia è degna di nota. I colori sono cupi, i volti sempre per metà in ombra, ma non è certo quello che rende la suspense che, nella pellicola è pressoché assente. Non esiste un campo contro campo, è tutto realizzato in maniera statica, per non parlare della voce fuori campo che banalizza alcuni momenti che invece andavano sottolineati e messi in scena.
Chi conosce la Angeli non la riconoscerà mai in questo film. Troppo perfettina come figlia, moglie, madre, che sta al posto suo in maniera mansueta quando le tolgono l’indagine, che ha coraggio sì, ma quasi con il freno a mano tirato. Lei, che invece è una che ruggisce, che le sue paure se le mette in tasca e che sa fare bene il suo lavoro e che è una determinata, che punta l’obiettivo, costi quel che costi.
Nel film non vi è traccia di quello che accade sui social, per esempio, dove molto di questa vicenda ha avuto corso, ma si da fa però una vera e propria sponsorizzazione all’associazione #noi che ormai segue e sostiene la Angeli da diversi mesi. Mi è sembrato fuori luogo anche il passaggio delle foto di famiglia (quella vera) alla fine del film come se si avesse necessità di ribadire che quella storia era la sua, proprio la sua, a scanso di equivoci.
Insomma, A Mano Disarmata non appare un’opera all’altezza dello scopo che risiede senza dubbio, nell’impegno civile e nel documento di denuncia, circa una condizione che affligge molti giornalisti italiani ad oggi sotto scorta.
Simona Stammelluti