Uno sguardo sul teatro, di professione o d’amatore, nobile manifestazione d’arte, la più antica e risolutiva della comunicazione visiva, dove il personaggio interprete lascia il segno nell’agone della scena e nel ricordo di tutti. Come i tanti personaggi pirandelliani che abbiamo visto nella nostra città.
E’ una passione che nasce, a volte, negli anni dell’adolescenza e si conferma nella giovinezza, quando poi approda alla prima maturità, allo studio di testi, alla recitazione, alla parola efficace e significativa, quando si è già composti nell’insieme della finzione scenica, tra quinte e luci opportune, fondali e cieli e già tutto appare magico.
IL teatro negli anni della gioventù vive nel tempo sottratto allo studio scolastico, tempo ceduto alla passione, passione disordinata e focosa, per il gruppo e per l’affermazione propria, visiva, comunque edonistica e di pratica culturale elevata per i testi classici che si pongono in studio, testi troppo classici che spesso vanno al di là dall’ essere compresi appieno.
Occorre allora un teatro da abitare e viverlo con personaggi espressivi, manifestarlo con recite, parlare, muoversi, entrare e uscire dalla scena, avanzare verso la ribalta con le luci in faccia.
Un momento particolare è quello dell’approssimarsi della recita, quando si alza il sipario. Il quel momento l’attore, pronto e attento, diventa altro; per un momento sospende il rapporto con tutti e diventa personaggio, il personaggio, come lo vuole l’autore: con nome e cognome, professione, interessi nella sua vita e nella società figurata.
Diventa, quindi, un personaggio completo, ricco di sentimenti e risentimenti, proprio come scritto nel dramma o nella tragedia che va a rappresentare.
Ecco che interpreta, parla e va al centro della scena, usa la parola con una vasta serie di tonalità, più della musica. Usa lo sguardo, le mani, le braccia, si muove di qualche passo. Rivela e sottintende, aggredisce e si quieta. Mormora, ora invoca, ora si impunta, non parla più, dice soltanto mmm, mmm. Poi si guarda intorno, si addolcisce nella pronuncia e nello sguardo, ora si svela alla platea, la guarda, la sente, la scorre tutta.
E’ una creatura dell’Autore che lo ha plasmato a tavolino e che decide, parola dopo parola, della sua vita, lieta o di tragedia.
Il personaggio segue il testo davanti al suo pubblico pronto a comprendere le sue gioie, soffrire delle sue angosce, fallimenti, e ricatti e tutto ciò che anima il turbinio dell’ esistenza.
Terminata la rappresentazione ritorna nel testo, in uno scaffale e rimane sepolto con tanti altri personaggi. Ma attende sempre, comunque, chi può ridargli la vita e riportarlo in scena, perché il personaggio è eterno.
Ed è per questo che il teatro è una magia, anche per la scena, le luci, il suono, l’attesa, l’atmosfera, fino all’ansia dell’attore esposto alla platea.
All’attore tocca di svelare lo spessore e l’anima del personaggio, l’attore entra nel personaggio e lascia fuori se stesso e quello che egli è, pronto a dare e svelare tutta la miseria e la nobiltà del testo.
Le parole del testo sono le pietra lastricate di una via che percorrono, passo, paso, tutti i personaggi: palpitanti, pronti a ragionare fino a consumersi il cervello, logorare i sentimenti, amare, odiare, piangere e ridere.
A chiusura di tutto ecco il personaggio,: avanza piano, ancora un altro passo sulle magiche tavole del palcoscenico verso la ribalta, gli astanti già applaudono… e allora ci vuole un inchino, un inchino.