La mia passione per il cinema di Gianni Amelio non è stata delusa e seppur il suo ultimo film (presentato al festival del Cinema di Venezia), “Campo di Battaglia” sia liberamente ispirato ad un’opera letteraria, credo abbia fatto un ottimo lavoro cinematografico.
Sullo sfondo della guerra, il filo sottile tra etica e deontologia.
È intenso il suo modo di concepire la guerra: i silenzi, il buio, i colori dell’epoca, l’impotenza davanti ad alcuni eventi ineluttabili, un ospedale al posto di una trincea. E nei letti di ospedale tante storie, quante sono le vite, scovate e raccontate tramite una camera a mano.
La regia è madida di umanità per quei giovani male addestrati, mandati al fronte a morire.
Il long take iniziale inquadra corpi ammassati, la fame, mani che cercano aiuto, uno spiraglio di speranza in mezzo alla devastazione.
Amelio racconta con pietà i giovani soldati, i loro dialetti, il dolore, che non è solo quello fisico ma anche quello che ha l’odore acre e stantio della disperazione di chi a volte deve rischiare tutto pur di far ritorno a casa, e casa in tempo di guerra, sono gli affetti.
Una storia ambientata in Veneto alla fine della prima guerra mondiale, in un ospedale militare dove finiscono i soldati feriti, molti dei quali si auto infliggono delle lesioni pur di sfuggire al fronte.
Tutto in un epoca in cui a livello medico c’era molto poco per curare. Le ferite si curavano dove si poteva e dove non si poteva si amputava e se non era possibile amputare si assisteva a morti per setticemia.
In questo scenario due medici, Giulio e Stefano, amici da tempo, innamorati in passato della stessa donna, che gestiscono l’ospedale dal proprio modo di concepire quel ruolo. Uno crede che servire la patria sia più importante della vita stessa, l’altro crede che la vita sia sacra, costi quel che costi.
Quell’essere disposto a gesti poco etici, verrà scoperto e si creerà un precedente affinché a nessuna venga in mente di cercare una soluzione altra.
E qui penso che Amelio abbia attuato tutta la sua intensità cinematografica ma anche una raffinatezza espressiva.
La fucilazione che si perpetra ai danni di un soldato, un ragazzino di 18 anni, sotto gli occhi di tutti gli altri ammalati, è una scena intensa.
Quel dare le spalle al pubblico in sala, è come sottoporre lo spettatore stesso a quella fucilazione.
Alessandro Borghi (Giulio nel film) buca davvero lo schermo, mentre incede in quel ruolo da “salvatore”. I suoi occhi, le sue espressioni facciali, la cicatrice sul labbro, gli occhiali piccoli, sono dettagli scenici che fanno della sua arte attoriale un condensato di realismo.
Bravi anche Gabriel Moltesi e Federica Rossellini. Lei, medico mancato, infermiera per ripiego con un passato triste alle spalle che ama uno dei due medici e dall’altro fugge, che diventa testimone e causa di alcuni eventi.
Il finale è buio, in tutti i sensi.
Il buio dei luoghi, il buio dell’impotenza, il buio di un male di cui non si sa nulla; e il buio della resa, anche se si consuma alle prima luci dell’alba. E a scandire gli eventi sul finale di film i colpi di tosse, che tengono il tempo, in un tempo nefasto.
Amelio accenna anche alla fine della guerra, ma con quel retrogusto amaro, per tutto quello che lasciò dietro; la spagnola, andò a stremare una popolazione già devastata dalla guerra.
Il campo di battaglia raccontato da Amelio è dunque una questione morale, con tanto di antagonisti. Il campo di battaglia sono i corpi dei soldati il cui destino è spesso, nella pellicola, stabilito dalla questione morale.
Piccole gemme sono le storie singole e appena accennate dei soldati malati, e poi quella frase che fa da cornice ad un momento di tenerezza: “qui non muore nessuno”.
Parole proferite per esorcizzare la morte, per allontanare la paura, compagna fedele nei campi di battaglia.