Le recenti dichiarazioni del pentito nisseno Pietro Riggio alimentano e rilanciano il sospetto delle presenze esterne a Cosa Nostra a Capaci il giorno della strage contro Falcone.
Adesso lo si è appreso perché adesso sono stati depositati gli atti al processo di secondo grado cosiddetto “Capaci bis” in corso innanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. Si tratta del contenuto della trascrizione delle dichiarazioni del pentito di Resuttano, Pietro Riggio, e del confronto, avvenuto lo scorso 7 marzo, tra lo stesso Riggio, accusante, e Giovanni Peluso, il poliziotto già ispettore alla Questura di Roma accusato da Riggio di avere partecipato alla strage di Capaci e di essere in rapporti con i Servizi segreti.
E da quanto si legge negli atti emerge che, forse, così come a Roma in via Fani il 16 marzo del 1978 a uccidere la scorta di Aldo Moro, forse, non sono state, o non sono state solo, le Brigate Rosse, anche il pomeriggio del 23 maggio del 1992 a Capaci a incendiare il tritolo della strage contro Giovanni Falcone, forse, non sarebbe stato, Giovanni Brusca, finora tramandato alla storia come “Il boia di Capaci”, ma altri o anche altri. E infatti: Pietro Riggio racconta che in carcere, a Santa Maria Capua Vetere, Peluso si sarebbe rivolto a lui così: “Ma tu sei sicuro, credi ancora che il tasto del telecomando l’abbia premuto Brusca?”.
E Riggio, col senno di poi, commenta: “Non lo so perché mi dice questo. Però ho intuito subito, nell’immediatezza dei fatti, che sicuramente conosceva, sapeva qualche cosa, o diretta o de relato o non so come, che gli facesse affermare questa cosa che Brusca effettivamente non avesse premuto lui”.
Dunque, riemerge a galla l’ipotesi del doppio cantiere per l’esplosione. Giovanni Brusca è convinto di avere usato solo lui il telecomando. E invece adesso si alimenta il sospetto del secondo telecomando, già insorto altrettanto recentemente quando il pentito catanese Maurizio Avola ha raccontato che un ‘forestiero’ avrebbe aiutato i mafiosi siciliani: l’artificiere di John Gotti, il capo della famiglia mafiosa ‘Gambino’ di New York. E tra le motivazioni della sentenza di primo grado allo stesso processo “Capaci bis” (quattro ergastoli e un’assoluzione), i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta tra l’altro scrivono: “Nel presente procedimento viene a formarsi un quadro, sia pure non ancora compiutamente delineato, che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui ambienti esterni a Cosa nostra si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti e incoraggiandone le azioni”.
E il giudice istruttore del processo “Trattativa”, Antonino Di Matteo, ha in più occasioni spiegato che la strage di Capaci probabilmente è stata etero-diretta e che, oltre all’esistenza di mandanti e concorrenti esterni, si sospetta la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra anche nella fase operativa-materiale”.
Angelo Ruoppolo (Teleacras)