L’obbligo delle mascherine in diverse province e città, ma anche il loro uso generalizzato, fa infuriare i cinesi per le incombenze quotidiane tramite i telefoni. E manda in tilt i sistemi governativi.
La Cina sta scoprendo un altro effetto collaterale del nuovo coronavirus che si abbatte sul riconoscimento facciale. Dal momento che le mascherine facciali sono obbligatorie in almeno due province cinesi, e comunque estremamente diffuse anche in molte altre zone, oltre che in diverse grandi città, i sistemi di riconoscimento facciale a ogni livello stanno facendo cilecca.
Le protezioni sono di fatto obbligatorie nelle province di Guangdong, nel sud del Paese, in quella di Jiangxi, al centro, oltre che nelle città di Nanchino e Ma’anshan nella provincia di Anhui e in quella di Xinyang nella provincia di Henan. Decine di milioni di persone che nascondono i propri connotati quando escono di casa e, come si è visto anche nel corso delle proteste di Hong Kong, le celano in questo modo anche ai sistemi di riconoscimento. Non solo quelli governativi, ma anche quelli per così dire consumer (spesso non meno scivolosi) che servono a svolgere operazioni di routine, dall’apertura dei portoni dei palazzi alle app bancarie, dall’imbarco in aereo in 200 aeroporti del Paese fino alla richiesta di cibo a domicilio o alla prenotazione di visite mediche passando per gli smartphone (basti pensare al Face ID di Apple o agli altri sistemi simili, ormai lo standard per quasi tutti i produttori) che d’altronde sono il cardine intorno a cui si basano molti di questi servizi.
Se lo smartphone non si sblocca, è un problema. Così come la transazione che non va a buon fine. E per questo sembra che le proteste si stiano diffondendo su Weibo, la Twitter cinese, almeno stando a quanto ha spiegato Abacus, testata di Hong Kong specializzata in tecnologia. La maggior parte delle lamentele si lega esattamente all’impossibilità di utilizzare il volto per gestire le operazioni sul telefono. Cupertino e Huawei, il campione cinese, hanno ovviamente confermato che non c’è modo che i loro sistemi possano funzionare in presenza di mascherine.
La sorveglianza in crisi
C’è poi il lato della sorveglianza: lo scorso dicembre il governo cinese ha approvato una legge che prevede che a ogni nuovo acquisto di una scheda telefonica Sim occorra sottoporsi a una scansione facciale. Formalmente, per “proteggere i diritti legittimi e gli interessi dei cittadini nel cyberspazio”, nella pratica per arricchire e ripulire ancora meglio lo sterminato database che tiene d’occhio il quasi miliardo e mezzo di cinesi. Ci sono perfino scuole che usano il riconoscimento facciale per segnare le presenze e addirittura stabilire il livello di coinvolgimento degli alunni e il loro comportamento. L’uso generalizzato delle mascherine li mette in profonda difficoltà.
Basti pensa che il mese scorso alcuni ricercatori della società californiana Kneron, che si occupa di intelligenza artificiale, sono riusciti a ingannare un sistema per effettuare pagamenti sulle piattaforme AliPay e WeChat. Come? Semplicemente indossando una mascherina. Figuriamoci cosa possa accadere con milioni di persone che, per proteggersi e proteggere dal coronavirus, circolano per il Paese col volto coperto. E se anche alcuni algoritmi sono già in grado di superare camuffamenti e altre problematiche, i sistemi non sono perfetti. Senza contare una serie di ostacoli, come i bias, i pregiudizi applicati dagli algoritmi (in particolare a volti asiatici ma anche di altre origini, come nativi americani e afroamericani) che rendono l’operazione non così chirurgica come si vorrebbe far credere, e a sua volta foriera di gigantesche discriminazioni e violazioni della libertà personale.
Tutti motivi per cui in molti Paesi, al di fuori della Cina, il riconoscimento facciale resta un terreno tra i più controversi del momento, tanto che pare che l’Unione Europea intenda bandirne ogni applicazione per i prossimi cinque anni. Negli Stati Uniti, ad esempio, monta la polemica, e le legittime richieste di trasparenza e interruzione delle operazioni, sul software Clearview AI utilizzato da oltre 600 dipartimenti di polizia, anche in Canada, e in grado di confrontare le foto caricate di volta in volta dagli agenti con un immenso database di oltre tre miliardi di immagini attinte dal web e dai social network, cioè anche da Facebook e YouTube. Tanto che Google si è appena mossa, chiedendo alla società che fornisce questi servizi l’immediata interruzione di questa ‘pesca’.
E in Italia una recente interrogazione del deputato Pd Filippo Sensi sul punto ha appena ottenuto dal ministero dell’Interno una risposta parziale che nulla dice sull’eventuale uso del software in questione. Ma rivela che nel database dell’Afis, l’Automated fingerprint identification system nazionale, sono conservati oltre 17 milioni di ‘cartellini fotosegnaletici’ di volta in volta interrogati dal Sari, il Sistema automatico di riconoscimento immagini in dotazione alle forze dell’ordine tricolori.
Fonte: tecnoblog.cloud