Conclusa la requisitoria della Procura Generale di Palermo. Proposti 7 anni e 4 mesi di reclusione per l’ex senatore Antonio D’Alì, imputato in Appello di concorso esterno alla mafia.
Giuseppe Graviano, da Brancaccio Palermo, boss stragista ergastolano, nel marzo del 2016 è intercettato in carcere. Lui conversa con un compagno di cella, ed entrambi sono detenuti al 41 bis. E le parole di Graviano sono: “Poi ci sono cose che io non riesco a capire. C’è quello trapanese, D’Alìa, quello con gli occhi… graziosi. Questo, con quello che cercano, guardami Umbè, sono come la…”. E Giuseppe Graviano, durante “sono come la…”, ha intrecciato le dita delle mani. Ebbene, secondo i magistrati “quello che cercano” è il latitante Matteo Messina Denaro. Antonio D’Alì, in carica al Senato per 24 anni, discendente di un’antica famiglia nobiliare proprietaria della Banca Sicula e delle saline di Trapani, fedele riferimento di Silvio Berlusconi, è stato anche sottosegretario agli Interni dal 2001 al 2006. Nei terreni della sua famiglia, in contrada Zangara a Castelvetrano, ha lavorato come “campiere” don Ciccio Messina Denaro, padre del latitante Matteo. Lui, Antonio D’Alì, è imputato dal 2011 per concorso esterno all’associazione mafiosa. In primo grado, in Tribunale, giudicato in abbreviato, è stato assolto, e per le condotte precedenti al 1994 è intervenuta la prescrizione. In Appello è stato assolto. Poi la Cassazione ha annullato l’assoluzione e ha rinviato il processo ad un’altra sezione di Corte d’Appello. Il secondo processo d’Appello a carico di Antonio D’Alì è attualmente in corso a Palermo, e la Procura Generale, dove avere ottenuto il rinnovo parziale del dibattimento con l’ascolto di nuovi testimoni, ha appena invocato la condanna di D’Alì a 7 anni e 4 mesi di reclusione. Secondo gli inquirenti, Antonio D’Alì avrebbe contributo al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, offrendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato. E poi: il politico trapanese, fin dai primi anni ’90, avrebbe intrattenuto rapporti con le cosche e con esponenti di spicco dell’organizzazione mafiosa come il superlatitante Matteo Messina Denaro, Vincenzo Virga e Francesco Pace, cercando l’appoggio elettorale delle “famiglie”, e svolgendo un ruolo fondamentale nella gestione degli appalti per importanti opere pubbliche, dal porto di Castellammare del Golfo agli interventi per l’America’s Cup. I presunti collegamenti mafiosi di D’Alì sono stati citati da diversi pentiti tra cui Antonino Giuffrè, Antonio Sinacori, Francesco Campanella, e Antonino Birrittella, ritenuti attendibili dai giudici d’Appello. Lunedì prossimo, 5 luglio, è attesa l’arringa difensiva.
Angelo Ruoppolo (Teleacras)