Riflessioni comparative tra la prima e la seconda sentenza al processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia: l’intervento di Nino Di Matteo.
A cavallo delle due sentenze al processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia all’epoca delle stragi del ’92 e del ’93, la prima di condanna e la seconda, in Appello, assolutoria tranne che per i mafiosi Cinà e Bagarella, è intervenuto Nino Di Matteo, il magistrato palermitano, adesso consigliere togato al Csm, che è stato pubblico ministero al processo di primo grado insieme a Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. E Di Matteo riflette: “Partiamo da un dato oggettivo: il processo è stato giornalisticamente definito ‘trattativa’, ma è una definizione impropria. Nel codice penale italiano non è previsto il reato di trattativa. C’è il reato di minaccia al corpo politico dello Stato. In questo caso, abbiamo considerato che, tra il 1991 e il 1994, almeno tre governi che si sono alternati in quel periodo sono stati minacciati di attentati dinamitardi e attentati mafiosi. In altre parole, la strategia di Riina e altri era quella di ottenere alcuni benefici, soprattutto legislativi, mettendo in ginocchio con forza lo Stato, nella speranza che lo Stato venisse a negoziare con loro. Il reato attribuito a questi mafiosi era, quindi, una minaccia per l’organismo politico dello Stato. In questo delitto sono accusati alti ufficiali dei Carabinieri e politici di avere fatto da ponte tra mafiosi e governo, e di avere comunicato ai mafiosi la richiesta di cessare la loro strategia. In primo grado, dopo 5 anni di udienze, con centinaia di testimonianze, collaboratori di giustizia, decine e decine di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali, una sentenza di 5.552 pagine ha condannato tutti gli imputati: non solo mafiosi, ma anche appartenenti a istituzioni e politici. In Appello, però, solo i mafiosi sono stati condannati, e i Carabinieri sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Evidentemente il fatto è stato provato, ma probabilmente non è stata presa in considerazione la frode derivante dall’appartenenza ad una istituzione. Ma sono orgoglioso che la sentenza abbia portato alla luce fatti che nemmeno un’assoluzione può smentire: che la mafia ha piazzato bombe per sfondare lo Stato, e che una parte dello Stato ha chiesto ai mafiosi cosa volevano per fermare gli attentati. E un terzo fatto: quando Riina ha capito che una parte dello Stato lo cercava per trovare una soluzione, ha pensato che la strategia della violenza fosse quella giusta. Era necessario che lo Stato si inginocchiasse definitivamente, perché potesse dettare le condizioni. Roma, Firenze, Milano non furono attacchi come quello di Capaci: a Capaci si voleva eliminare un nemico storico della mafia, Giovanni Falcone. Gli altri avevano una finalità diversa, non volevano una vendetta mafiosa: volevano scatenare il panico per ottenere vantaggi. Volevano seminare distruzione e morte tra i comuni cittadini, danneggiare il patrimonio storico-artistico italiano, proprio perché lo Stato aveva iniziato a negoziare. E Riina ha voluto che, in queste trattative, il peso della violenza fosse sempre il massimo. Da questo punto di vista, anche le sentenze che hanno assolto alcuni imputati non possono negare che i fatti siano avvenuti in questo modo. Ed è grave perché mostra come, quando lo Stato scende al livello della mafia, provoca un danno enorme, perché riconosce l’autorità dell’interlocutore. E lo convince ulteriormente che è sulla strada giusta”.