Le dichiarazioni della figlia dell’avvocato Enzo Fragalà: “Mio padre ucciso perché ritenuto ‘sbirro’. La sua morte come avvertimento a tutta l’avvocatura palermitana”.
L’avvocato Enzo Fragalà è stato aggredito e picchiato brutalmente appena fuori il suo studio legale a Palermo il 23 febbraio del 2010, ed è morto tre giorni dopo. Il 23 marzo del 2020, dieci anni dopo la fatale aggressione, la Corte d’Assise di Palermo ha condannato Francesco Arcuri a 24 anni, Antonino Abbate a 30 anni, Salvatore Ingrassia a 22 anni e Antonino Siragusa, che poi ha collaborato con i magistrati, a 14 anni di carcere. Sono stati assolti, con la formula del “non avere commesso il fatto”, Paolo Cocco e Francesco Castronovo. Adesso la figlia dell’avvocato, Marzia, conferma le motivazioni della sentenza addotte dai giudici della Corte d’Assise, ed ha dichiarato (una sorta di sfogo) all’Adnkronos: “Mio padre veniva chiamato dai detenuti ‘sbirro’ perché dava fastidio, c’era malcontento in Cosa Nostra. Ed è stato punito con un’aggressione brutale, violenta che lo ha portato alla morte. Ora vogliamo che il cerchio si chiuda, vogliamo tutta la verità sulla sua morte. A Cosa Nostra ha dato fastidio che mio padre garantisse la posizione dei suoi assistiti. E se riteneva giusto che il suo cliente collaborasse e parlasse dei fatti, glielo faceva fare, senza esitare. Quindi, in questo modo, andava contro il ‘codice’ di Cosa Nostra secondo cui non bisogna mai patteggiare o collaborare. Il malcontento nell’organizzazione mafiosa è derivato da questo. Infatti non fu più nominato come difensore da grossi boss mafiosi ma da gente che non ricopriva ruoli apicali in Cosa Nostra”. Motivando le condanne, ancora i giudici della Corte d’Assise, tra l’altro, hanno scritto: “La punizione di Fragalà, per le modalità attuative e la notorietà della vittima designata, doveva assumere una evidente valenza simbolica e dimostrativa, ed era rivolta non già al solo professionista Fragalà, ma anche all’intera avvocatura palermitana”. E Marzia Fragalà altrettanto conferma affermando: “La violenza efferata dell’aggressione era proprio il simbolo per dare una ‘lezione’, un avvertimento alla classe forense tutta. Più crudeltà e più forza loro dimostravano in questo gesto, più la classe forense si sarebbe piegata. Ma non è accaduto”. Poi, a domanda, la figlia dell’avvocato ha risposto: “Di mio padre manca sicuramente la sua dialettica nelle aule di tribunale, il suo modo di esporre le sue cause, questo manca molto. Mio padre era una persona che si faceva voler bene sia dai colleghi che dai magistrati, nonostante avesse tanti scontri. Ma era rispettato. Era un padre premuroso, attento, gentile, presente, voleva molto bene alla sua famiglia”.
Angelo Ruoppolo (Teleacras)