Il depistaggio e il calvario di Scarantino (video)

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Il falso pentito del depistaggio sulla strage di Via D’Amelio contro il giudice Borsellino, Vincenzo Scarantino, ha deposto al processo a Caltanissetta. I dettagli.

Il falso pentito, Vincenzo Scarantino, pilotato nel costruire un castello di menzogne sulla strage di Via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino e dei poliziotti di scorta, è stato ascoltato al palazzo di giustizia di Caltanissetta. L’ex “picciotto” della Guadagna ha risposto a magistrati e avvocati impegnati nel processo a carico di tre poliziotti: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex componenti del gruppo “Falcone-Borsellino” capeggiato all’epoca dal defunto Arnaldo La Barbera, e che sarebbe la punta del compasso su cui è ruotato il già battezzato “depistaggio colossale” sull’attentato esplosivo del pomeriggio del 19 luglio 1992. Tra l’altro, Vincenzo Scarantino ha affermato: “Fino a che ho ritrattato ero una persona libera. Poi mi hanno chiuso in caserma a me e alla mia famiglia. Sono uscito nell’ottobre del 2011. Sono rimasto in carcere 16 anni e dicevo che ero sempre innocente. Per me era impossibile che si cercasse la verità. Era impossibile. Io parlavo con le guardie a Busto Arsizio, raccontavo la mia disperazione, la mia innocenza. Dicevo che stavo male e loro mi prendevano per pazzo. Anche quando volevo ritrattare, tutti mi prendevano per pazzo. Nel carcere di Pianosa andavo a colloquio, mi facevano spogliare nudo e c’era la paletta, quella per controllare se c’è ferro, e mi davano dei colpi nelle parti intime. Dopo mi dicevano di guardare a terra e mi davano schiaffi in bocca perché guardavo a terra. Guardavo a loro e mi davano calci con gli anfibi. Sembrava il carcere di ‘Fuga di mezzanotte’. Mi orinavano nella minestra, mi mettevano le mosche e i vermi che si usano per pescare nella pasta. I primi giorni non me ne accorgevo perché tenevo la luce spenta. Poi la guardia è stata gentile e mi ha detto di accenderla. E allora ho cominciato a non mangiare più. All’inizio pesavo più di 100 chili, poi mi sono ridotti a circa 53 chili. Stavo tutta la notte sveglio. Perché la notte facevano un casino. La mattina mi mettevo sulla brandina per addormentarmi e venivano a fare perquisizioni. Poi senza motivo buttavano acqua. Non è che gli davo motivo, perché io ero un ragazzo rispettoso, non facevo casino. Soffrivo senza dire niente”. Poi, al procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, che sollecita il testimone su un altro falso pentito, Francesco Andriotta, Vincenzo Scarantino risponde: “Andriotta scriveva tutto quello che dicevo. Io mi sfogavo. L’unica colpa che ho avuto è stata che non ho messo la museruola. C’erano detenuti che stavano nella sezione di mio cognato Salvatore Profeta che mi dicevano che non parlava con nessuno. Era proprio il suo carattere. Lui diceva solo buongiorno e buona sera. Sono stato arrestato il 26 settembre 1992 assieme a Salvatore Profeta, mio cognato, ma a Profeta lo hanno subito liberato e a me no. L’imputazione era per strage. Mi accusavano Salvatore Candura e Valenti, ma anche il dottor La Barbera, il dottor Bo e il dottor Ricciardi. Io iniziai a collaborare nel giugno del 1994, dopo che mi hanno portato a Pianosa”. Presente in aula è stata Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice Paolo Borsellino, parte civile nel processo, che, a conclusione dell’udienza, commenta: “Tutto questo non doveva succedere. Sono senza parole. Oggi nel 2019 siamo ancora ad ascoltare Scarantino. Io posso dire solo che è inammissibile che tutto ciò sia avvenuto sotto gli occhi di poliziotti e magistrati. Oggi stiamo partecipando a un segmento dell’accertamento delle verità sul piano giudiziario di tre poliziotti, ma vi sono responsabilità ad alti livelli. Parlo del Csm, della Corte di Cassazione, Procura Generale: organismi dai quali sono stata più volte coinvolta e io oggi mi aspetto una risposta”.

Angelo Ruoppolo (Teleacras)

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