C’era pure l’imprenditore favarese Bruno Milazzo, 57 anni, nella lista dei 118 imputati del maxi processo “Aemilia” che ha svelato gli affari della ‘ndrangheta al Nord. L’agrigentino, in primo grado, era stato condannato a 5 anni di reclusione con l’accusa di intestazione fittizia di beni aggravata.
I giudici della Corte di appello di Bologna, accogliendo il ricorso dell’avvocato Angelo Nicotra, lo hanno assolto ritenendo che le operazioni contestate fossero del tutto lecite e, in ogni caso, in buona fede.
Milazzo, che per alcuni anni si era trasferito a Brescello e aveva intrapreso alcune attività imprenditoriali, era imputato per due fatti risalenti ad oltre dieci anni fa. In particolare gli contestava di avere occultato, attraverso alcune operazioni fittizie di intestazione di società e quote di esse, la partecipazione alle speculazioni di Alfonso Diletto, imprenditore edile di Brescello, considerato il numero due della cosca Grande Aracri a Reggio, e condannato in via definitiva a 14 anni e due mesi per associazione mafiosa e altri reati nello stralcio abbreviato del processo Aemilia.
L’inchiesta ha avuto particolare risalto anche per il coinvolgimento dell’ex calciatore della Juve e della nazionale, con cui ha vinto il mondiale nel 2006, Vincenzo Iaquinta (condannato a un anno per possesso di armi) e del padre Giuseppe al quale sono stati inflitti 13 anni di reclusione per associazione mafiosa.
La difesa di Milazzo, in particolare, ha sostenuto che l’imprenditore aveva, in effetti, partecipato al Consorzio ma non “vi era prova che intendeva favorire Diletto e l’associazione mafiosa”. Tesi simile per l’acquisto di una società – la Ds Costruzioni -, oggetto del secondo capo di imputazione. L’avvocato Nicotra ha obiettato che si era trattato di una semplice operazione imprenditoriale fatta senza alcun intento di favorire nessuno.
La sentenza della Corte di appello, che ha inflitto quasi 700 anni di carcere ai 91 condannati (gli altri 27 fra cui Milazzo sono stati assolti o hanno beneficiato della prescrizione), conferma l’esistenza di una potente cosca della ‘ndrangheta in Emilia Romagna.