Le notizie che arrivano dalla Terra Santa sono poche e a volte anche non del tutto veritiere. Allora – come sempre faccio – mi informo al meglio prima di raccontarvi quale sia la situazione attuale in Palestina ed anche in Israele. E non c’è modo migliore per sapere cosa accade, che non sia parlare personalmente con chi quella terra la conosce bene perché la vive, perché ci lavora.
Pina Belmonte da anni, lavora come volontaria a Gerusalemme e sulla sua pelle ha vissuto le problematiche di sempre, oltre alla situazione di criticità del periodo pandemico.
Lei mi aiuta a tradurre dall’arabo i dati oggettivi della situazione e poi mi racconta dalla sua viva voce, tutto ciò che i giornali non dicono ma che invece si dovrebbe sapere, perché altrimenti si finisce per tenere la luce accesa dappertutto tranne che su quella striscia di terra perennemente in guerra e spesso dimenticata dagli uomini, ma non da Dio.
La situazione sanitaria in Israele mostra come i casi di infezione da coronavirus sono passati da 8.000 della metà di settembre a diverse centinaia alla fine di ottobre, con un blocco nazionale, che ha iniziato a diminuire gradualmente il mese scorso.
Mercoledì i ministri hanno votato per consentire la riapertura dei negozi da questa settimana, nonostante le obiezioni dei funzionari sanitari che hanno chiesto una lenta e graduale riapertura dell’economia e delle scuole.
I negozi hanno aperto domenica, con un massimo di quattro clienti alla volta e nel rispetto delle norme anti-Covid.
Tuttavia, la riapertura interessa solo i negozi nelle aree con i tassi di infezione più bassi e che si affacciano sulla strada, escludendo quelli nei centri commerciali.
Il ministro della Salute Yuli Edelstein e il commissario uscente per il coronavirus Ronni Gamzu si sono entrambi opposti all’allentamento delle restrizioni a causa del numero del tasso di riproduzione di nuovi casi derivanti da ciascuna infezione da coronavirus.
Gamzu ha avvertito che la riproduzione dell’infezione di Israele è ben al di sopra del livello di 0,8 stabilito dal governo come livello massimo richiesto per riaprire le attività.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che sarebbe anche riluttante ad accettare le aperture, ha avvertito che il governo potrebbe riattivare alcune restrizioni se i numeri continueranno a salire.
La situazione in Palestina è diversa però.
Il rapporto epidemiologico sul Coronavirus in Palestina nelle ultime ore dice intanto che dalla città di Gerusalemme non arriva nessun dato.
Per il resto, il Ministro della Salute, Dr. May Al-Kailah ha affermato che il tasso di guarigione dal coronavirus in Palestina ha raggiunto l’87,79%, mentre il tasso di infezioni attive è dell’11,36% e il tasso di morte è stato lo 0,85% rispetto a tutte le infezioni.
Nel rapporto quotidiano sulla situazione epidemiologica del Coronavirus in Palestina, il ministro Al-Kaila ha dichiarato che giovedì si sono registrati 4 morti in Cisgiordania, ci sono 40 pazienti nelle sale di terapia intensiva, di cui 9 pazienti con respiratori artificiali.
Durante l’incontro tra il ministro palestinese e quello degli Esteri italiano Luigi Di Maio, avvenuto nei giorni scorsi, il primo ministro Palestinese, ha chiesto all’Italia di rompere lo status quo, riconoscendo lo Stato palestinese e chiedendo all’Europa di riempire il vuoto lasciato dall’amministrazione americana, con i suoi pregiudizi verso quella terra.
Le relazioni italo-palestinesi sono sempre state forti, poiché l’Italia è sempre stata dalla parte della giustizia e del diritto internazionale.
Durante l’incontro il ministro palestinese ha illustrato come si stia lavorando per superare tutti gli ostacoli al fine di indire elezioni per ripristinare l’unità e la democrazia in terra palestinese, in modo da poter rafforzare l’interno per affrontare le sfide esterne che sono state imposte.
Il ministro palestinese ha anche chiesto di beneficiare del vaccino su cui si sta lavorando e che dovrebbe essere completato entro la fine dell’anno, e il ministro italiano ha risposto positivamente a questa richiesta.
Dopo 4 anni di posto vacante, 3 giorni fa si è insediato il Patriarca latino di Gerusalemme, un italiano, PierBattista Pizzaballa che era già amministratore Apostolico del Patriarcato Latino.
Naturalmente Israele ha un servizio sanitario diverso da quello palestinese, che ha più difficoltà nel gestire la pandemia, oltre a dover vivere sotto occupazione israeliana.
Tra l’altro In Palestina la situazione al tempo del Covid è differente da qualunque altro luogo al mondo, perché parliamo di una zona che ha problemi quotidiani anche per i semplici spostamenti, oltre che problemi di violazione dei diritti umani.
A causa della situazione sanitaria, il ministero israeliano aveva inoltre bloccato i visti.
Non si poteva rientrare in Palestina se non si aveva un posto dove stare e comunque facendo regolare quarantena.
Ma già da febbraio sono stati attuati i blocchi agli ingressi da Cina e Italia. La struttura a Gerusalemme che si occupa di assistenza di persone affette da vari tipi di disabilità, l’Hospice Sant Vincent de Paul, ha gestito al meglio la situazione. Nel momento in cui aumentavano i casi, ha provveduto a chiudere completamente la struttura per due mesi e mezzo. Nessuno usciva e nessuno entrava.
Chi lavorava lì, ha vissuto lì h24.
Lì non c’è solo una pandemia da gestire ma la vita che è da sempre difficile.
Israele ha vietato tutto alle persone che andavano a lavorare, quindi ai palestinesi, a coloro che per esempio vivevano a Betlemme. E non dimentichiamo che fuori da Betlemme, ci sono i check-point armati degli israeliani. Durante il prima lockdown Betlemme è stata dichiarata dal primo ministro palestinese “zona rossa” e quindi nessuno poteva entrare o uscire.
Il “Baby Caritas Hospital” ha continuato a lavorare per assicurare assistenza ai bambini.
Tanto che il ministro della salute palestinese ha scelto proprio il laboratorio di questo ospedale per far sviluppare i tamponi che venivano fatti in Palestina.
Nessun turista entra in Palestina (ma anche in Israele) da mesi ormai, e sono letteralmente in ginocchio, perché vivono solo di pellegrinaggi e di turismo religioso.
Non solo devono affrontare il virus maledetto, ma per un paese che vive già sotto occupazione tra le difficoltà di ogni giorno, la pandemia rende tutto più difficile.
Con l’espropriazione dei terreni palestinesi e la distruzione di case, Israele continua la politica di oppressione verso i palestinesi. Noi urliamo alla dittatura quotidianamente, per le ingiustizie che vediamo, ma in Palestina ai giornalisti viene negato di fare il proprio lavoro.
Lavorare in Palestina significa raccontare una realtà che è scomoda per Israele.
Ancora si cerca il bene della Palestina, e forse tenere accesa l’attenzione su quella terra, potrà essere una porta per la salvezza.
Simona Stammelluti