L\’attore siciliano Andrea Puglisi, reduce dal successo di \”PPP amore e lotta\” si racconta a cuore aperto al Sicilia24h

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Era da tempo che volevo fargli questa intervista, senza fretta, godendo di tutta la personalità di un artista che si sta sempre più facendo conoscere nel mondo del teatro.
Da un nostro incontro è venuta fuori questa lunga ed appagante intervista, nella quale l\’attore regala emozioni e riflessioni sul mestiere che ha scelto, così difficile eppure così bello. E poi momenti di vita personale, ricordi, aneddoti e tutto l\’amore che lega un attore alla sua arte.

Buona lettura

S: Andrea, che momento è della tua vita artistica ed anche personale
A: è un momento felice, di appagamento, ma anche di crisi.
Crisi e felicità, per quanto mi riguarda, vanno di pari passo.
La felicità, sfortunatamente, non cresce sugli alberi e per raggiungerla è necessario superare un momento di crisi. Molti sono stati i progetti che mi hanno messo alla prova e tantissime le soddisfazioni raggiunte una volta conquistati gli obiettivi e superati gli ostacoli. La mia vita artistica, posso affermarlo, va di pari passo con la mia vita personale.
Il mio lavoro – che è anche la mia più grande passione – permea ogni momento della mia giornata.
Pochi mesi fa, ad esempio, la grande crisi è arrivata in un momento di ricerca. Io sono un cacciatore di storie ed un grande appassionato di Storia. Quella storia con la “S” maiuscola che ha inglobato – e ingloba – migliaia di microstorie che, inesorabilmente, vengono deteriorate dalla clessidra del tempo. La crisi in questione faceva riferimento ad un lavoro di ricostruzione storica a proposito della guerra che mio nonno Natale ha combattuto tra il 1940 ed il 1945 in Jugoslavia. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, ma sfortunatamente ero troppo giovane per chiedergli personalmente tutto quello che gli era accaduto durante la sua permanenza sotto le armi. Così ho cominciato a cercare documenti, lettere, fotografie. Sono riuscito a ritrovare moltissime notizie tra i faldoni e le carte sepolte, tra gli scaffali dei distretti militari. Poi mio padre, un giorno, mi racconta una storia che avevo già sentito, ma che avevo riposto in qualche antro della mia memoria. Un aneddoto che mio nonno gli raccontava sempre. E da questo aneddoto, da questa micro storia vissuta da un soldato qualunque, ho ricostruito la vita. E l’ho ricostruita nero su bianco con Il libro di Natale che è stato premiato come miglior racconto al Premio Nazionale Ercole Patti e che uscirà prossimamente edito da Algra Editore.
Come vedi, vita artistica e personale sono amalgamate alla perfezione. Ogni tanto si confondono ma tutto questo mi rende felice.

S: Che bambino sei stato e che uomo sei oggi

A: Sono il terzo figlio maschio, il piccolo. Arrivato a dodici anni di distanza dal maggiore (Massimo) e a dieci dal secondo (Fabio).  Il “bastone della vecchiaia” si potrebbe dire. Sono stato un bambino qualunque, che faceva molte domande, con la passione per tutto quello che lo incuriosiva e certamente viziato da mamma Maria e papà Salvo che non mi hanno mai fatto mancare nulla. All’età di quattro anni, mamma e papà mi catapultarono (con mia grande gioia) sul palcoscenico, con la commedia in dialetto siciliano ‘U sapiti com’è. Ricordo le prove con tanti attori, l’odore della polvere dietro le quinte di quel teatro parrocchiale ed il colore rosso delle poltroncine che, dal palco, spiccavano come tanti fiammiferi ordinati nella loro scatoletta. Da lì, io riuscivo a vedere tutto. Tutti quelli che c’erano seduti. Il giorno della prima rappresentazione, però, il rosso di quelle poltroncine venne meno. Quando entrai in scena – lo ricordo benissimo – sulla platea era calata la coltre nera del buio in sala. Quel buio mi aveva scioccato; intriso l’immaginario di una miriade di storie. Chi c’era lì? Immerso in quel misterioso mondo oltre il sipario? Non era dato sapersi. Non fino alla fine dell’ultimo atto, almeno. L’uomo di oggi porta con sé, ancora, l’immagine potentissima di quel buio e, forse, per questo, ha deciso di sposarla. Ho deciso di intraprendere questo mestiere “solo” per quel momento di buio. L’uomo di oggi sa che, immersi in quel nero, ci stanno tanti esseri umani: piccoli, adulti, anziani, che nella solitudine di quella coltre nera, vivono i loro sogni, piangono e ridono. Con me; insieme a me.

 S: Scegliere di fare questo lavoro pensi ti abbia reso una persona più consapevole, rispetto al genere umano?

A: Per fare questo mestiere è necessaria una buona dote di follia. Di questo, certamente, ne sono consapevole. Quando parlo di follia, però, non intendo parlare di quell’irrazionalità che porta alcuni individui – che amano definirsi artisti – a perdere le staffe in scena, a creare scompiglio e ad inserire forzatamente un elemento di distruzione (e pertanto chiamato erroneamente folle) all’interno di un’esibizione.
No. Per me la follia è quella capacità, quella consapevolezza, di trovarti all’interno di una gabbia e sentirti libero. Il mio mestiere spesso viene visto come il lavoro della libera espressione, del “tutto è possibile”, del “dimmi questa battuta così come se dovessi dirla al bar, così viene naturale”, del “tutti siamo attori”. Non è vero. Non tutti siamo attori o attrici. Così come non tutti siamo medici, veterinari o farmacisti. Bisogna studiare per esserlo. E poi, il mio mestiere è estremamente vincolante. Lontanissimo dalla mera libertà e dalle possibilità infinite. Basti pensare che abbiamo il vincolo della sceneggiatura, del ruolo, delle luci, i limiti fisici del palcoscenico. Tutto, nel nostro modo di finzione, ha un limite. Follia, quindi, è sentirsi liberi dentro questo limite con la consapevolezza di riuscire a raccontare storie diverse, personaggi diversi. Di trovare il brutto nel bello ed il bello nel brutto.
Non so, in conclusione, se questo mestiere mi abbia reso più consapevole rispetto al genere umano. So per certo che questo lavoro mi ha permesso di vivere i panni di centinaia di individui e questo mi ha insegnato a riflettere prima di emettere una qualsiasi sentenza nei confronti di una qualsiasi persona o situazione.

 S: Come affronti un nuovo testo, come lo studi, come lo fai tuo. Ma soprattutto come scegli se accettare o meno un ruolo.

A: Partiamo dall’ultima domanda. In questo momento storico della mia carriera posso dire di avere la fortuna di scegliere, soprattutto a teatro, il ruolo da poter interpretare. Ogni anno mi vengono proposti, con immensa gioia, molti lavori.
Ad un certo punto della carriera, però, non si può più dire di sì a tutto; e questo non perché ci si sente ormai realizzati. Semplicemente perché con il passare del tempo i ruoli diventano sempre più importanti e impegnativi e con una consistente mole di lavoro da affrontare. Pertanto, la mia scelta si fonda soprattutto sulla concretezza del progetto.
Non accetterò mai un lavoro senza delle solide basi artistiche ed umane. Io amo lavorare con gente educata e corretta. Mi piace affrontare il mio mestiere con la giusta dose di adrenalina ma senza nervosismi.
Nella mia vita artistica mi è capitato (raramente e soprattutto agli inizi) di lavorare con gente poco educata. Il lavoro ne risente; moltissimo.
Poi, decido anche in base al ruolo che mi viene proposto. Prediligo i drammi ma non disdegno le commedie.
In ultima analisi, ma non meno importante, valuto l’aspetto produttivo e remunerativo. Ne approfitto per ricordare che il nostro è un mestiere difficile anche dal punto di vista delle leggi che regolano la giusta contrattualizzazione dei lavoratori dello spettacolo. La presenza di una produzione solida e conosciuta, pertanto, è un ulteriore fattore che valuto prima di accettare.
Nel momento in cui accetto di lavorare su di un personaggio, prima di cominciare a “fare memoria” del testo, provo a documentarmi il più possibile; soprattutto se si tratta di un personaggio storico e realmente vissuto. Lo faccio attraverso i libri, i video originali (se esistono) e tutti i materiali che possono tornare utili ai fini di un approfondimento ed uno studio mirato. Dopo di che passo allo studio della memoria, delle battute che il personaggio deve interpretare. Lavoro moltissimo di fronte allo specchio, quando mi è possibile e, anche durante le prove, utilizzo sempre (o quasi) il costume, soprattutto le calzature. Queste, infatti, sono fondamentali ai fini della giusta postura del personaggio. Diciamolo chiaramente: non è possibile interpretare Napoleone Bonaparte con le scarpe da ginnastica!
Io sono un attore molto tecnico. Prima di lasciare il sopravvento al sentimento, provo a costruire nel dettaglio ogni minima azione da ripetere in scena strutturando uno spartito fisico. Lavoro come un musicista che segue lo spartito. Io non leggo le note, ma le azioni. L’insieme dei miei spartiti fisici, costituisce l’intera partitura del mio personaggio. In poche parole, costruisco la mia gabbia per provare a sentirmi libero una volta che è stato chiuso lo sportello d’ingresso.

S: Sei reduce dal nuovo spettacolo “PPP amore e lotta”, andato in scena al teatro Cilea di Reggio Calabria. Che Pasolini avete portato in scena?

 A: Abbiamo portato in scena un Pasolini non convenzionale. Il testo di Katia Colica, diretto da Matteo Tarasco non metteva in scena la vita e le opere di Pierpaolo Pasolini. Non si trattava di agiografia del poeta ma di una storia inedita.
La drammaturga ha immaginato una bolla temporale venutasi a creare nel momento in cui Pierpaolo viene ucciso all’idroscalo di Ostia. All’interno di questo limbo il poeta ritrova lo spettro del fratello Guido e l’immagine della madre Susanna che, come ogni sera, lo avrebbe aspettato – stavolta invano – alla finestra.
L’allestimento è stato davvero spettacolare e le musiche di Antonio Aprile hanno dato un tocco magico e spettrale alla scena. Devo dire di essere stato molto fortunato. Ho avuto la possibilità di essere diretto da un grandissimo regista come Matteo Tarasco e la grande occasione di lavorare insieme a Maria Milasi, collega bravissima che ha interpretato la madre Susanna e ad Americo Melchionda che è stato veramente straordinario.
In scena, spesso, data la sua somiglianza con il poeta, sembrava davvero di vivere in un sogno e di avere Pierpaolo Pasolini a pochi passi da noi, insieme, sul palcoscenico del teatro Cilea. Uno spettacolo di cui, sono certo, sentirete parlare molto.

S: Che ruolo hai avuto in “PPP amore e lotta” e come l’hai fatto tuo

A: In PPP ho avuto l’immensa fortuna di interpretare Guido Pasolini, fratello di Pierpaolo, partigiano della brigata Osoppo ucciso dai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi, appena diciannovenne, nei fatti legati all’eccidio di Porzûs, controverso episodio della resistenza italiana. Io avevo sempre sognato di interpretare un personaggio simile; un soldato, un ragazzo che ha immolato la propria vita per un ideale. È vero, anche io scrivo spesso di soldati e di episodi legati alla guerra, ma il ruolo che per me ha scritto Katia Colica è stato davvero emozionante. Anche in questo caso prima di cominciare ho comprato molti libri e ho cercato di reperire moltissime notizie a proposito de “l’altro Pasolini”. Ho scoperto un mondo, per me, assolutamente nuovo. Sono stato catapultato, improvvisamente, in Friuli Venezia Giulia; una regione, per me, geograficamente lontanissima e che non avevo mai preso in considerazione per le mie ricerche storiche. Ed invece ho scoperto un luogo meraviglioso che pullula di storie, di fatti; terra di confine, non soltanto crocevia di disgrazie e di racconti da far rabbrividire.
Nello spettacolo rappresento lo spettro di Guido che apprende, in quel momento, di essere morto: fucilato con un colpo alla testa e seppellito in una fossa comune insieme ad altri diciassette compagni.
Da quel momento questo personaggio è divenuto, per me, un’ossessione. Ho scoperto moltissime cose: il suo volto, le lettere che scriveva alla madre Susanna ed al fratello Pierpaolo, le poesie, le fotografie.
Una cosa continuava ad ossessionarmi. La sua voce. Non ne ero a conoscenza. Così, un giorno, il regista Matteo Tarasco mi propose di render giustizia alla voce di Guido. Un ragazzo che aveva vissuto tutta la vita tra la gente che parlava friulano che accento avrebbe potuto avere? Friulano, ovviamente, ed imbastardito dal dialetto emiliano del padre Carlo Alberto. Mi sono imbattuto così nel più complesso lavoro della mia carriera. Io, siciliano, avrei dovuto recitare con un accento friulano con cadenze emiliane. Pertanto, ho chiesto aiuto all’attrice friulana Rachele Sarti che mi ha aiutato come vocal coach. Abbiamo studiato i suoni, la musica e le cadenze di quel dialetto così estraneo e, per me, lontano. Da quel momento Guido si è pian piano fatto strada nella mia anima ed è diventato, per sempre, un pezzo del mio cuore.

S: Ti capita di tirare fuori battute dei tuoi lavori teatrali, nella vita?

A: Assolutamente sì. Ho un grande amico, Pierpaolo Laconi, straordinario mago di bolle internazionale, con il quale abbiamo condiviso moltissimi spettacoli. Le nostre conversazioni vanno avanti solo per battute ripescate da vecchi lavori teatrali. Questo ci fa ridere. È un modo per esorcizzare il tempo che passa ed allontanare con meno rimpianti i progetti che vengono riposti per sempre nel cassetto.

S: Le emozioni sono sempre le stesse, quando sei in scena?

A: No, le emozioni non sono mai le stesse.
Per me, molto dipende da diversi fattori. Ultimamente mi rendo conto di essere molto più emozionato quando so che tra il pubblico c’è qualcuno della mia famiglia. Spesso mi trovo a recitare lontano da casa, con un pubblico a me non familiare. Anche in quel caso sono emozionato, ma quando recito “in casa” ho sempre un fremito in più. Da anni ormai, come sai, porto in scena il monologo La guerra di Paulinuzzu Millarti. Quando so che in platea sono presenti anche i parenti del signor Montalto, tutto cambia e mi sembra di tornare indietro alla prima volta che ho messo piede sul palcoscenico da professionista. Ho girato tantissimi posti e ho recitato in teatri molto grandi, ma l’emozione più grande per me, oggi, è avere la mia famiglia ed i miei nipotini in platea. Vederli dal palco è, per me, lo spettacolo più bello del mondo.

S: Hai mai pensato: quasi quasi smetto, faccio altro? In fondo questo è per davvero un mestiere difficile

A: Il nostro è davvero un mestiere difficile. Cosa vendiamo in fin dei conti? Storie. E le storie cosa sono? Fumo. Noi attori siamo venditori di fumo. Non vendiamo qualcosa che si può stringere tra le mani, che si può appoggiare sopra una mensola o che si può possedere realmente. Vendiamo qualcosa di immateriale; di effimero. E vendere storie, oggi, è davvero complicato. Ma mi chiedo, in questo momento storico, quali altri lavori sono così sicuri? La sicurezza economica potrebbe arrivare da un posto fisso, certamente. Ma noi liberi professionisti siamo tutti sulla stessa barca. Io mi trovo ad affrontare le stesse difficoltà di un avvocato, di un architetto, di un ingegnere che a fine mese devono far quadrare i conti con lo spettro e la consapevolezza di non avere uno stipendio fisso. E poi ci vuole coraggio per potersi barcamenare in questa ridda di pescicani che è il mondo dello spettacolo. Ma a me il coraggio non è mai mancato. Di questo sono più che sicuro. Ricordo ancora il giorno in cui, tredici anni fa, lasciai la sicurezza delle mura di casa e partii per realizzare il mio sogno. Andai via per studiare in accademia.
Ricordo i sacrifici dei miei genitori per non farmi mancare nulla, anche a centinaia di chilometri di distanza. Devo tutto a loro. Ogni traguardo raggiunto, non solo la vita che mi hanno donato.
Per questo ti dico: no. Non ho mai pensato di smettere.
Non potrei mai farlo per l’amore, la dedizione, il sacrificio e lo studio che ho dedicato in questi anni di lavoro. E anche volendo rinunciare cosa potrei fare? Senza questo io non riuscirei a fare altro.
C’è una frase del mio maestro Carlo Giuffrè, “gigante” del teatro con il quale ho avuto l’onore di lavorare – e che è stato uno dei miei più grandi maestri – che per me è una sorta di monito.
Dice: “Se non ci fosse stato il teatro non avrei saputo fare altro. Il teatro è tutta la mia vita. […] gli attori vivono più a lungo, perché vivendo anche le vite degli altri, le aggiungono alle loro”.
Anche io spero di vivere a lungo. Non una vita soltanto, ma centomila.

 S: Che ambiente è quello dell’arte e del teatro, e come si gestisce il successo quando arriva, secondo te

A: Il successo può arrivare da un momento all’altro, quando meno te lo aspetti ed a qualsiasi età. Bisogna essere pronti, mentalmente e professionalmente. Se arriva quando si è adulti, nella maggior parte dei casi, si riesce a capire che non si tratta di un marchio che attesta maggiore bravura rispetto agli altri. Può essere, ma non è sempre così.
Ho visto attori straordinari, a teatro, avanti con gli anni, che hanno successo tra le fila degli addetti ai lavori, ma che non possono essere definiti popolari a livello nazionale.
Il successo deriva semplicemente da un insieme di fattori che hanno permesso alla nostra immagine (proiettata o mandata in diretta di tv) di essere vista da svariate migliaia di persone.
Se il successo arriva da piccoli, invece, bisogna avere la lungimiranza di incanalarlo verso uno studio ed una formazione che permetta all’attore o all’attrice in questione di non rimanere relegato per sempre allo stesso identico ruolo. Oggi, soprattutto in televisione, si ha una tendenza a prendere attori che aderiscano già perfettamente con il personaggio. Spesso questi prodotti sono distribuiti su scala nazionale e questo può portare al successo ed alla popolarità. La lotta successiva sarà quella per riuscire a scrollarsi di dosso il ruolo che ci era stato imposto, e per farlo sono necessarie solide basi di studio che possano permettere agli individui in questione di calzare diversi ruoli altrettanto comodamente.
Come si gestisce il successo? Non saprei dirti, cara Simona, spero di parlartene presto nelle prossime interviste. (Sorrido).

 S: Il successo è popolarità, oppure la popolarità non sempre cammina di pari passo con il successo? Insomma cos’è il successo? E il talento?

A: Non credo che la popolarità cammini sempre di pari passo con il successo. Essere popolari non significa, per forza, essere riconosciuti nell’ambito del proprio lavoro e della propria disciplina. Ci sono molti casi in cui successo e popolarità camminano a braccetto. È il caso, questo, dei colleghi che, oggi, sono riconoscibili alle grandi masse che li hanno potuti ammirare nei loro lavori in televisione o al cinema. Riescono a realizzare lavori di chiara fama, con registi qualificati (anche loro popolari e di successo) e vengono spesso insigniti di premi e riconoscimenti. Nella maggior parte dei casi sono amati dalle folle. In questi giorni abbiamo avuto modo di leggere dell’ennesima donna vittima di un compagno violento. In questo caso, l’individuo in questione, diviene popolare – ovvero riconosciuto dai più per i fatti commessi – ma certamente non possiamo dire che questi sia un individuo amato e di successo.

Il talento? Non credo nel talento e non ci ho mai creduto. Credo che esista una predisposizione per determinate cose. Questa predisposizione, però, va supportata da uno studio, duro ed approfondito che possa permettere all’individuo in questione di poter avere gli strumenti adatti per realizzare il proprio lavoro nel migliore dei modi. Il genio (e non il talentuoso) è infatti colui che, dopo aver appreso tutto ciò che la propria arte può trasmettergli, cambia le prospettive, rompe gli schemi e ne fonda degli altri. È colui che riesce a vedere le cose da un punto diverso. Così è stato per i grandi maestri della pittura: Picasso, ad esempio. Così per i grandi visionari del novecento come Carmelo Bene.

Talento, oggi, è una parola abusata e utilizzata ai fini dell’imbroglio. Moltissimi enti di formazione artistica, vantano tra le loro file allievi di “talento” che sono riusciti a lavorare nelle grandi produzioni cinematografiche o teatrali. E se il talento è la risposta a tutto allora perché hanno dovuto studiare? Il talento viene elevato allo stesso livello della fortuna. So fare una cosa e allora la faccio; così, senza metodo.

Nessuno si sognerebbe mai di sottoporsi ad un’operazione a cuore aperto fatta da un chirurgo di talento ma che non ha mai studiato o che si è ritrovato poche volte ad incidere delle carcasse in diretta televisiva. Per questo, a mio modesto parere, dovremmo smettere di dare così tanta importanza a questo fantomatico talento e dovremmo trattare gli artisti come professionisti della cultura, come individui formati, che possiedono un mestiere, appreso nelle accademie o sul campo.

Il talento non esiste, esiste lo studio, forsennato ed incessante e la caparbietà di dire: io farò questo; costi quel che costi.

 S: È vero che un attore è bravo se il regista che lo dirige lo è?

A: No, non credo. Sicuramente se un regista è bravo lo spettacolo ne guadagna in bellezza visiva, in fluidità scenica ed emozionalità. Il regista, in fondo, è colui che riesce ad amalgamare e fondere i differenti piani interpretativi di tutti gli artisti coinvolti nell’allestimento. Riesce a far combaciare il piano narrativo con quello interpretativo, e poi con quello dello scenografo e con quello del musicista e del light designer. Un bravo regista deve avere una perfetta visione di insieme e deve cercare di mantenere i punti d forza di ciascun artista implicato nell’operazione.

Io credo, poi, che il lavoro regista-attore sia un lavoro di continuo scambio. Non è vero che l’attore è un pupazzo nelle mani del regista e nemmeno che il regista sia un terzo incomodo che si intromette e riduce i virtuosismi dei primi attori. Nella mia carriera ho sempre avuto la fortuna di lavorare con registi bravissimi e molto intelligenti come Francesco Giuffrè, Natale Filice, Americo Melchionda, Benedetta Nicoletti, Giancarlo Sammartano, Matteo Tarasco, Tommaso Sassi e tanti altri.  Con loro il dialogo è stato sempre frequente e professionale. Questo non significa che le nostre visioni fossero sempre uguali, ma ciascuno spettacolo è frutto del lavoro di ciascun individuo implicato.
Senza dibattito non c’è vita, senza vita non c’è teatro e senza teatro non c’è comunità che possa definirsi civile.

S: Prossimi progetti?

A: Questa estate sarò in giro con tre diversi spettacoli. A partire dalle prossime settimane tornerò in scena nei panni di Guido Pasolini in PPP Amore e Lotta. Saremo in tournée nella zona della locride. Dopo di che continuerò il mio tour, sempre con la compagnia Officine Jonike, con lo spettacolo Ulisse on the Road dove interpreto il ruolo del dio Poseidone, in una riscrittura del mito. Lo spettacolo la guerra di Paulinuzzu Millarti invece sarà di scena a Reggio Calabria immerso nel suggestivo panorama dello stretto. Per la prossima stagione ho già in cantiere altri lavori tra i quali un ruolo di Mercuzio nell’opera Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Contemporaneamente al lavoro di attore continuo con il mio lavoro di formatore teatrale, insegnante di movimento scenico. Inoltre insegno, presso un’accademia di recitazione romana “utilizzo della maschera integrale della Commedia Nuova” che, grazie a Giancarlo Sammartano, ho avuto modo di approfondire e perfezionare con la mia laurea.

S: Grazie Andrea, a presto. 
A: A presto, grazie.

 

 

 

 

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