Ho aspettato un po\’ prima di scrivere questo articolo.
Come mi accade sempre più spesso, alcune cose di getto hanno una sapore troppo amaro; e allora prendo tempo, cerco la complicità del tempo affinché le parole siano quelle giuste, affilate al punto giusto. Perché non devono fare male le parole, devono destarci da un torpore che ci rende sempre più distanti da una realtà che è divenuta drammatica; una realtà che guardiamo ma mai da vicino, che ci interessa ma sempre troppo poco, che non vediamo mai come possibile perché tanto \”a noi non capiterà, ma figurati!\” e così passiamo oltre. Resettiamo. Quello che è accaduto ieri ormai è notizia vecchia, anzi lo è già dopo poche ore, figuriamoci dopo pochi giorni. Qualcosa ci colpisce, ci dispiaciamo anche, ma alla fine non ci tocca, non è affar nostro. Ed invece è affar nostro. È affare di tutti.
Perché questo perpetuarsi di storie che hanno come protagonisti giovani che trovano libertà dal male di vivere, solo morendo, lanciandosi nel vuoto, mi fa tremare i polsi mentre scrivo, mi fa sentire incapace e fallita non solo nel ruolo di madre e dunque di educatrice, ma anche di cittadina, di persona che ha un ruolo e una montagna di responsabilità. E se non si avverte quel senso di sgomento e di paura, quel senso di colpa accogliendo la notizia che una 18enne – che sarebbe potuta essere figlia di ognuno di noi – si è tolta la vita pur avendo davanti a sé una vita sfolgorante, piena di successi, di amore e di bellezza, se non ci viene da domandarci non tanto perché (perché forse non lo sapremo mai) ma dove si è inceppato l\’ingranaggio della comunicazione, della comprensione, del dialogo con questi giovani, abbiamo fallito. Abbiamo fallito tutti.
Analizzando la storia di Julia Ituma la stella della pallavolo italiana, trovata morta a Istanbul in Turchia giovedì mattina, mi è venuta in mente la storia di Antonella Diacono, una giovanissima che si è tolta la vita nel 2017 a soli 13 anni. Mi sono venute in mente le parole di suo papà Domenico, che in una intervista parlava di attenzione, dell\’attenzione che spesso non diamo alle cose e alle parole che i giovani ci rivolgono, ai malesseri che sottovalutiamo, a cose che possono sembrare banali ma che in realtà non lo sono mai, non lo sono per quei giovani che sembrano forti e spavaldi, sicuri di sé e capaci di affrontare tutto, ma che nella realtà, nella loro realtà – che dovrebbe essere anche la nostra – si sentono piccoli, indifesi, incapaci di navigare acque in tempesta, perché soli e senza un faro verso il quale puntare la rotta.
Anche le parole che sembrano \”buttale lì\” e alle quali non si da il giusto peso, possono diventare un salvagente se ce ne si fa carico, se si analizzano, se non le si lasciano cadere. Perché può essere – non sempre ma qualche volta sì – anche dietro un carattere esuberante, estroverso, carico di empatia possono nascondersi delusioni, incertezze, paure e, piaccia o no, spetta a noi adulti, genitori, insegnanti, allenatori, educatori, tirare fuori quel malessere, quella inquietudine, quella fragilità da sotto la parvenza di normalità che i giovani provano a costruirsi, fin quando poi non ce la fanno più.
Le porte chiuse, le parole non dette.
Le richieste di aiuto silenziose, una domanda fatta a bruciapelo che non trova la giusta risposta, un dubbio che diventa poi un vicolo cieco, un\’aspettativa delusa, la paura di non farcela, di non essere all\’altezza o al contrario quel senso di onnipotenza che non può appartenere ad un adolescente e che quindi è destinato ad infrangersi, la non certezza che chi ci consce ci possa realmente aiutare. Tutto questo a volte pesa così tanto sulle spalle dei giovani, che alla fine anche la mano tesa, non viene vista, non viene percepita come una reale richiesta di aiuto.
Anche Antonella come Julia, prima di morire aveva cercato un contatto telefonico con un\’amica, ma senza che quel contatto fosse foriero di una soluzione ad un dubbio che a volte attanaglia fino all\’ultimo minuto secondo della propria esistenza.
Gli addii ai giovani non andrebbe mai dati in questo modo, non quando solo loro che vanno via.
Eppure qualcosa resta. Resta il rimpianto del tempo che ruba le vite alla vita, resta la volontà di capire perché, anche se non si riuscirà forse mai a capire, o forse capire è nascosto in un quotidiano che può contenere in sé una via di uscita anche se non sempre la si vede.
E allora non facciamo che guardiamo e passiamo oltre. La cronaca fa il suo, il resto dovremmo farlo tutti noi. Imparando ad ascoltare, e non solo adulti con giovani, ma anche giovani con giovani, educarsi anche da soli, ad ascoltare, a prestare attenzione.
L\’inquietudine a volte è sottovalutata, viene considerata capriccio ed invece può essere malessere.
Ci colpiscono le notizie come quelle della morte di Julia o di Antonella, ma poi tutto continua a scorrere, nulla ci tocca davvero nel profondo. Ed invece dovremmo sentire bruciare dentro la domanda circa il ruolo che ognuno di noi ha, e che quasi sempre è complementare alla vita degli altri, di coloro che sembrano estranei, ma potrebbero essere vicini a noi, proprio mentre ci giriamo dall\’altra parte.
Quando il dolore ti entra dentro, quando il male oscuro si nasconde dietro un apparente successo che non sai e forse neanche vuoi veramente, quando restano tante domande, allora bisogna ascoltare, rispettare e non giudicare mai.
Voglio terminare questo articolo con le parole che Antonella Diacono scrive in una lettera, qualche tempo prima di morire a soli 13 anni.
Andate contro i pregiudizi, e anche quando si rivelano corretti continuate a scavare, perché quello che gli altri pensano di noi, ci si attacca addosso come una seconda pelle. E allora combattete. Non lo farete, vero? – come pensavo …
Se volete vedere l\’intervista a Domenico Diacono, potete farlo qui