Dobbiamo ringraziare la Lucky Red che ha deciso di distribuire un film fino ad ora inedito, datato 2009, nelle sale in questi giorni, candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero e premiato al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard.
Il film (imperdibile) è Dogtooth di quel genio di Yorgos Lanthimos.
Non avevo così paura al cinema dai tempi di L’esorcista, o Shining; insomma … una vita fa.
Dogtooth è un film che fa paura, che inquieta, che ti divora, a tratti ti imbarazza, e per tutta la durata ti trascina dentro la storia e poi ti fa riflettere.
Ci sono momenti in cui “non vuoi vedere” e invece malgrado non vorresti, guardi … impaurito da quel che scorre sul grande schermo, ma guardi.
Si apre poco alla volta, fino a divenire una voragine e lì dentro ci finisci, mentre diventi parte di una famiglia che non solo non ha nulla di normale, ma neanche di morale, e che rappresenta l’emblema di una vera e propria dittatura.
Il regista gioca con il comportamento umano, realizza un vero e proprio esperimento sociologico, mentre racconta magistralmente non solo la storia di una prigionia ma soprattutto di una forma subdola di soggiogamento che lascia senza parole, che crea ansia e svilisce.
Un film senza colonna sonora.
Non serve, sarebbe controproducente. Lo spettatore non deve avere distrazioni, non deve essere condotto da nessun’altra parte se non dentro quella casa, dove ci si inventa un ruolo e si vincono adesivi come premio se si è i più bravi. Ma a fare cosa?
Geniale l’idea del film che reca come titolo “canino” inteso come quel dente che non cade mai, e che semmai per un motivo fortuito dovesse cadere, non ricrescerà.
Ma i 3 ragazzi personaggi del film – senza nome e dunque privi di identità – questo non lo sanno, e vivono tutta la loro esistenza dentro una casa senza mai uscire, imparando solo come interagire tra di loro in quella che per loro -e solo per loro -rappresenta una “normalità”, e senza mai conoscere il significato reale delle parole che costituirebbero una via di fuga e un contatto con il mondo esterno, che non hanno mai visto.
Un equilibrio assurdo e surreale dentro una costrizione emotiva oltre che fisica, che si incrina con l’arrivo in casa di una donna pagata dal padre padrone per soddisfare i bisogni sessuali del figlio maschio.
Il regista sceglie in molte scene di tagliare fuori le teste dei personaggi dalle inquadrature, sottolineando come la mente pensante, il giudizio critico e la coscienza di ciò che si rappresenta nel mondo, non ha fattezze, in quella condizione di vita.
La fotografia è perfetta per l’epoca in cui si svolgono i fatti anche se a tratti sembra quasi assumere i colori del cinema 8 mm.
Un film che scava nel tema sociale della inferiorità della donna rispetto all’uomo, e poi ancora l’incesto, la follia di chi inventa un nemico (innocuo) affinché nessuno si ribelli all’ordine costituito agli ordini imposti … cose da regime, insomma.
È tutto sempre in luce, ma c’è buio dappertutto.
Nel film ci sono innumerevoli riferimenti ad altre pellicole e i cinefili non faranno fatica a identificarli.
C’è un tentativo di riscatto, così come dovrebbe avvenire in ogni società che una volta annientata rialza la testa e si incammina. Ma a volte per salvarti devi conoscere che forma ha la libertà.
Una provocazione molto ben risuscita, in bilico tra una realtà alterata e fuori dal tempo e quella metafora che rende tutto credibile.
Simona Stammelluti