Se il teatro non fosse solo un’entità artistica che si consuma su tavole del palcoscenico, dovrebbe inchinarsi davanti a tanta bravura.
E’ una bravura che stupisce, incanta e a volte disarma, durante quei 100 minuti in cui si consuma in modo originale e intenso, un monologo difficile da dimenticare, e che ti rimbomba dentro per molti giorni a venire. Ti rimbomba dentro in quelle riflessioni che innesca, in quelle parole ripetute che diventano tue, in quelle domande che ti poni circa la tua vita di donna, non solo in quanto tale, ma anche in relazione al mondo maschile e alle vicissitudini che la vita ti mostra sotto forma di sfida.
In tournée fino a maggio, con PFF – Piano Forte Forte trisonata per corpo femminile e pianoforte, una eclettica, talentuosa e affascinante Valentina Cidda, diretta da Valentino Infuso – che ha scritto il testo e ne ha curato la regia – in quella che senza dubbio si può definire come una delle “mise en scène” più belle, appassionate, coinvolgenti e realistiche che il teatro possa regalare.
Valentina Cidda non è solo un’attrice ma anche una pianista che durante lo spettacolo mostra particolare virtuosismo artistico. In scena lei e un pianoforte a coda, che si piega ad ogni sua esigenza espressiva. Un pianoforte che sa essere Piano e poi Forte e Forte ancora, mentre la musica che ne viene fuori è protagonista anch’essa. Un pianoforte che è suo complice, a volte rifugio, spazio da vivere, piccolo mondo che lei sposta e di cui mostra il profilo mentre fa un viaggio nei passaggi della vita, dalla nascita fino alla fine, fino a quel momento nel quale se non ti fermi la vita ti inghiotte, se non recidi alcuni legami finisci per soccombe, se non fai pace con te stessa, non saprai mai chi sei.
Il monologo, che racchiude in se la forza di una voce sola, si sviluppa su tre tempi; tre sonate, tre momenti dell’esistenza, tre stadi di mutamento che Valentino Infuso scrive con una disarmante lucidità, mettendo a nudo corpo e anima, l’essenza umana ed espressiva di una donna, unendo l’artista al suo pianoforte e riuscendo in maniera affilata a volte, a coniugare tutto al femminile, tirando fuori probabilmente, quel femminile che risiede in lui in maniera profonda, scrivendo e traducendo in linguaggio teatrale ogni dettaglio di un viaggio i cui colori prendono mille sfumature, diventano potenti, prorompenti, appaganti. E’ come se tutte le emozioni, che iniziano piano ma poi diventano forti e ancor più forti durante la performance e che Valentina racconta, vive e suda, in scena, in qualche modo avessero attraversato anche lui.
Mai un uomo è stato così tanto spietato e chirurgico come è stato Infuso, nel tracciare le prove, le trasformazioni, le paure in cui viene rinchiusa una donna, e l’inferno nel quale a volte finisce, dopo essere venuta al mondo.
Valentina è sola in scena, ma sa essere tanti personaggi, fuori e dentro di lei, sa disegnare con la sua magistrale interpretazione la vita di una donna che nasce, cresce, che soffre, soccombe, subisce violenza, e poi si innamora, e che passa la vita a cercare di capire … a capire tutto e tutti, e la risposta la trova solo nel finale, e la consegna anche al suo pubblico.
Una Valentina Cidda che sa dare vita in maniera realistica ad ogni sfumatura emotiva, dalla paura alla speranza, dall’illusione alla resa e mostra il pianto, il dolore, la delusione. E tutto questo lo fa attraverso le tre parti dello spettacolo, che sono tre fasi dell’esistenza e tre momenti di mutamento, accompagnate da tre sonate: Origine del male, inferno e guarigione.
L’attrice si muove nello spazio con la consapevolezza del suo corpo, bello e agile, si serve del pianoforte sul quale sale, oltre che suonarlo con tutte le parti del corpo e in posizioni particolarissime che mostrano non soltanto una bravura come pianista ma anche una concentrazione impeccabile, dell’artista. Non si fa fatica a realizzare quando lungo e meticoloso sia stato il lavoro sul suo corpo, considerato che ogni movimento, ogni gesto, ogni espressione sono perfettamente intonate all’esigenza di un sentimento, che in scena viene scolpito, modellato, plasmato.
La nascita, una violenza subìta da bambina per mano di uno zio, rapporti come vuoti a perdere, mentre si subisce il dolore nascosto nelle pieghe di un finto amore, il perdono che non cancella colpe; e poi ancora la presenza ingombrante di una madre che per sua vanità esalta momenti comuni come se fossero talenti e che è assente quando la figlia ha bisogno che qualcuno le dica di “non farlo”. Un padre che non c’è – “papàà?!? Papà non c’è” – che lascia biglietti asettici, la giovinezza che lascia il posto all’età adulta, ai tacchi a spillo e ai progetti finiti in frantumi, mentre la narrazione si fa intensa e poi drammatica, si fa ironica a volte, ma al contempo spietata.
Le gambe di Valentina Cidda in scena sono protagoniste e disegnano non solo la storia narrata, ma anche i passi andati, quelli perduti e quelli in bilico sul ciglio di un precipizio che è anche emotivo.
I cambi d’abito, bianco, nero, rosso, e un pantalone di pelle attillato nell’ultima parte della pièce prima del finale, sono intonati alle intenzioni dell’autore. Com’è vero che quando tutto è chiaro, bastano due tratti per raccontare una storia.
Il dramma che si consuma in scena è così prorompente che ti prende allo stomaco, che ti fa sentire, avvertire, provare l’angoscia, il peso degli sbagli, i rigurgiti di rancore ed è facile restare impigliati in uno stato estatico, in cui si sublimano e si mescolano finzione e realtà.
E mai scema durante quei 100 minuti la bravura di una pianista che quello strumento lo sa far sussurrare, sussultare, stridere, armonizzare. Quelle musiche, quelle sonate che nascono sulla scena, per la scena, nate da un gesto che si fa suono e poi musica, e la musica torna ad essere parola, e poi risata, lacrima, impeto di rabbia, slancio e commozione.
I brani suonati e cantati nella seconda parte (seconda sonata) segnano la bravura di Valentina Cidda come compositrice.
E così dopo aver proposto seduta al pianoforte e inguainata in un pantalone di pelle, il brano “Ammazza la mamma”, la protagonista del monologo Mina Vlad, ormai divenuta donna in carriera, racconta di aver scritto quel pezzo per la colonna sonora dell’omonimo film vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino.
Se questo spettacolo è un po’ una favola moderna, allora il connubio tra Valentina e il suo pianoforte costituisce l’incantesimo, capace di comunicare, anestetizzare, risvegliare la consapevolezza di sé.
“Posizione a signorina”, “capisco … capisco tutto io” sono alcune delle espressioni che segnano il corso del racconto portato in scena e che potremmo tutti provare a raccontare, ognuno per quel che resta della scia di talento e di significato che il teatro di Valentino Infuso e Valentina Cidda lasciano sera dopo sera nei teatri italiani, ma l’unica cosa che va fatta è andarsi a sedere in platea, per vivere qualcosa che ci appartiene e che non si comprende mai fino in fondo, fin quando non si inciampa nella “posizione giusta”.
Simona Stammelluti