Il pm: «Se avessero diagnosticato e trattato correttamente la malattia, Laura Golino sarebbe ancora viva»
Chiuse le indagini sul caso “Gulino”. Il pubblico ministero, dott. Alberto Gaiatto del Tribunale di Sciacca ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei tre medici dell’Istituto Maugeri di Ribera che nel luglio 2020 visitarono la 37enne Laura Gulino. Secondo quanto contestato nel capo d’imputazione, i professionisti non avrebbero valutato in modo corretto gli esiti degli esami a cui la donna era stata sottoposta e non avrebbero disposto gli accertamenti diagnostici necessari per identificare l’embolia polmonare in atto che, dopo tre giorni, non le lasciò scampo. Operando in questo modo con «negligenza, imprudenza e/o imperizia». Le ipotesi di reato sono le medesime per tutti e tre: 589 cp (omicidio colposo) e 590 sexies cp (responsabilità colposa per morte in ambito sanitario).
Si tratta di tre medici che operano alla “Maugeri”, un medico, un fisiatra e un cardiologo.
«Confidiamo nel lavoro della magistratura – commenta Diego Ferraro, responsabile di Giesse Risarcimento Danni a cui si sono affidati i familiari della vittima – Se il pm ha chiesto il rinvio a giudizio dei tre medici significa che sussistono plurimi elementi che confermano ciò che sostenevamo anche noi grazie al lavoro svolto dai nostri consulenti medici: se l’embolia polmonare fosse stata riconosciuta e curata in tempo, Laura non sarebbe morta». A tal proposito, la conclusione cui arriva la consulenza tecnica del pm è chiara: «Il comportamento dei sanitari non fu conforme alle linee guida o alle buone pratiche clinico-assistenziali, intervenendo così di fatto nel determinismo causale del decesso della paziente».
I fatti: Laura Gulino nel giugno 2020 cominciava a manifestare un’impotenza funzionale e un’ipostenia (debolezza dei muscoli) nella parte destra del copro. Viene ricoverata e dimessa da diversi ospedali finché, il 2 luglio, la trasferiscono all’Istituto Maugeri di Ribera per il trattamento riabilitativo neuromotorio dove vi rimarrà fino alla sua morte. Il 25 luglio c’è il primo episodio di embolia polmonare. Scrive a riguardo il consulente tecnico del pm: «Ad indicarne la comparsa, plurimi elementi di gran lunga significativi che non fecero, come indicato dalle linee guida, sorgere il dubbio nei sanitari che la ebbero in cura».
Laura Gulino, come emerso in fase di indagine, era un soggetto «con plurimi fattori di rischio per tromboembolismo venoso». Di conseguenza, dopo l’episodio del 25 luglio, avrebbe dovuto essere chiaro, ai medici, quanto stava accadendo. «Di fronte ad un quadro del genere – continua il ct – il sospetto di embolia polmonare con prosecuzione di iter diagnostico tramite esecuzione di D-dimero e tc torace con mezzo di contrasto è imperativo». Tuttavia, nessuno dei sanitari decide di richiedere tali esami.
Il 26 luglio, da un lato la situazione si stabilizza, dall’altro il quadro polmonare rimane critico. Seguono altre visite, interviene anche un rianimatore, ma non si indaga l’origine della malattia: «I sanitari continuavano a trattare la sintomatologia ma non la causa della stessa» sottolinea la pubblica accusa. Finalmente, il 27 luglio, la dottoressa richiede una consulenza pneumologica ma ormai è troppo tardi. Lo pneumologo la fissa per il 28, a quasi tre giorni di distanza dal primo episodio embolico, con la raccomandazione di eseguire dosaggio del D-dimero e tac torace con mezzo di contrasto. Anche in questo caso, qualcosa va storto e la consulenza pneumologica risulta limitata dalla mancata esecuzione del D-dimero (verrà eseguito soltanto a seguito del decesso della paziente, mostrando valori elevatissimi) e da una tac torace senza mezzo di contrasto. Segue un altro grave episodio di instabilità emodinamica e, questa volta, anche la morte della paziente.
«Nel periodo tra il 25 e il 28 luglio 2020 – scrive il ct – i sanitari che ebbero in cura Laura Gulino non riconobbero un chiarissimo quadro di embolia polmonare massima in paziente ad alto rischio, non sottoponendo mai così la paziente alla corretta terapia trombolitica, di fatto conducendola a morte». Se fosse stata curata in tempo dopo il primo episodio di embolia polmonare, quindi, la donna sarebbe ancora viva. «Certo, il 28 luglio sarebbe stato impossibile salvarla – conclude Ferraro, di Giesse Risarcimento Danni – Ma se i medici avessero diagnosticato e trattato correttamente la malattia tre giorni prima, la paziente sarebbe sopravvissuta con una probabilità che il consulente del pm ha stimato maggiore del 90%. Attendiamo ora la decisione del giudice».