Potrebbe tranquillamente essere considerato un film storico, se non fosse un film di Marco Bellocchio che come sempre, attraversa la storia e gli avvenimenti dal suo punto di vista, senza pregiudizi e con la giusta tensione, utilizzando dettagli che sono propri del suo modo di fare cinema.
Anche questa volta, con \”Rapito\” Marco Bellocchio non delude, anzi, affascina e coinvolge, disseminando all\’interno della pellicola degli indizi, sfidando lo spettatore a riconoscerli e a sistemarli come tessere di un puzzle creato ad arte. Sa ben raccontare i rapimenti, Bellocchio; lo aveva già fatto occupandosi di quello di Aldo Moro.
Come sempre Bellocchio fa, pesca la trama nei temi che gli sono cari e dei quali è nutrito tutto il suo cinema: il potere, la chiesa, la famiglia, ed il ruolo dei personaggi che si muovono dentro un tessuto storico che viene analizzato con ricercatezza.
La storia di Ergardo Mortara, un bambino ebreo che nel 1758 a soli 6 anni viene strappato alla sua famiglia per essere educato in Vaticano e convertito alla religione cattolica, è quasi sconosciuta, e Bellocchio la scova e la plasma non solo per renderla nota al grande pubblico, ma la utilizza come stratagemma per puntare l\’attenzione e dunque l\’obiettivo sul potere della Chiesa, lo stesso che stregherà il bambino che una volta adulto, rinnegherà la sua origine e la sua religione.
Sullo sfondo le lotte intraprese dalla famiglia, le sconfitte della comunità ebraica da parte del potere del Vaticano, e poi quella parte di storia dimenticata, quella che va dal periodo in cui comandava il papa Re di una Italia in bilico, fino alla breccia di Porta Pia, quando un neonato Stato italiano, insorge e risorge.
Il tutto attraverso le vicissitudini di un bambino, diviso tra il dolore e la disperazione che prova lontano dalla sua famiglia, e la necessità di sopravvivere in un ambiente che pian piano gli è sempre meno ostile. Una esistenza tra sensi di colpa e voglia di libertà.
Pur in maniera molto aderente alla realtà, Bellocchio mostra senza alcun pregiudizio, tutte le sfumature ed anche le contraddizioni delle parti in causa. E così lo spettatore finisce dritto dritto dentro l\’istruzione ecclesiastica di quegli anni, ed anche nelle metodiche esistenziali della famiglia ebraica. La complessità umana e psicologica dei personaggi, è analizzata con dovizia e con rispetto.
Il film drammatico, affianca il ruolo e la personalità di Edgardo (da bambino Enea Sala, da adulto Leonardo Maltese) che cresce e trova la sua strada, a quello del papa Pio IX, interpretato da un Paolo Pierobon in gran forma, che esalta il carattere di quel pontefice che influenzò la fede cattolica anche con il modo in cui si occupò del caso di Edgardo Mortara, vittima di un battesimo clandestino. Grottesco, fin quasi ad assomigliare alle caricature che Bellocchio vuole prendano vita. Nella pellicola anche il fedele Fabrizio Gifuni, immenso nel ruolo del \”rapitore del rapito\”, padre Feletti, che irrompe nella casa dei Mortara per strappar via il piccolo Edgardo dalle braccia di suo padre (Fausto Russo Alesi). La scena nel film è magistrale come l\’interpretazione di Gifuni che si conferma uno dei più bravi attori contemporanei del cinema italiano, che Bellocchio più volte ha scelto per i suoi film.
Nella pellicola il passaggio onirico, segno distintivo del cinema di Bellocchio, coinvolge il Papa, e poi sarà il piccolo Edgardo, che durante un sogno, farà scendere Gesù dalla croce, che diventa così uomo e si allontana da quel calvario che è anche la vita di un piccolo bambino che vede in quella croce, tutti i mali del mondo compreso il suo.
Bravo Bellocchio ad analizzare le imperfezioni umane, le sfaccettature del potere e la libertà di scegliere chi essere, a dispetto di ciò che gli altri si aspettano tu sia. Diventare, mentre si prova ad essere, è quella forma di libero arbitrio che il regista affida alla figura di Edgardo Mortara, che sceglierà la chiesa cattolica come sua casa e suo destino, consacrandosi ad un Dio che in tenera età gli era stato imposto.
Il colore dei film di Bellocchio è riconoscibile già dalla prima scena raccontata. Il buio anche quando c\’è luce, l\’assenza del sole perché nel plumbeo del vivere risiedono dolori ed incertezze, disperazione e quella verità nascosta sotto la coltre di un potere temporale che annienta anche il senso della chiesa stessa. Quei chiaroscuri che a tratti inquietano e regalano il senso di quel vivere e del dolore dei volti.
L\’uso del grandangolo, di cui Bellocchio si serve per abbracciare luoghi e simboli, per poi passare ai dettagli che scrutano sguardi e paure, sentimenti e bellezza.
Perché il regista è maestro di bellezza, di stile, in quel suggestivo affresco narrativo, che incede con un ritmo del montaggio che travolge e coinvolge.
Restano impresse le scene non a caso di Ergardo bambino che dalla gonna della mamma che lo nasconde quando stanno per portarlo via, alla gonna papale sotto la quale sarà il papa a nasconderlo affinché non lo trovino mentre giocano a nascondino. La differenza sottile tra il potere papale che nasconde consapevole che nessuno oserà stanare, e quello di una madre a cui l\’amore non basta per mettere in salvo suo figlio. E poi l\’urlo del padre, quando capisce che è tutto perduto. Un crescendo di sensazioni che trasmigrano dall\’attore allo spettatore.
La storia dunque, ancora una volta al servizio di un regista che riscrive le dinamiche, lasciando intatte le vicissitudini.