Ho recuperato uno dei film che destava in me maggiore curiosità e non solo per il debutto nel cinema di Elodie, ma perché da sempre interessata al modo di fare cinema del regista pugliese Pippo Mezzapesa.
La visione non mi ha delusa, ma devo ancora capire se classificarlo tra i film che rivedrei.
Una cosa però è certa: è un film da vedere.
Ma veniamo alle caratteristiche del film.
Girato in bianco e nero che scontorna in maniera efficace la storia di famiglie di mafia del Gargano, che vivono di pastorizia e di malaffare. La sterilità dei loro gesti, privi di morale, si contrappone alla fertilità delle morti che lasciano dietro di sé; l’ossimoro che segna le vite di famiglie composte da padri padroni che uccidono per vendetta e di figli spesso costretti contro la propria volontà a diventare a loro volta assassini, ma per scelta altrui. Vendette, faide e un amore che non doveva essere, sono la trama di un film che si nutre di suoni, espressività e riprese fatte ad arte.
E così mentre il regista passa dal grandangolo al macro con talento e leggiadria, il suono che scandisce i minimi dettagli, regge una storia che è scarna di dialoghi, proprio come accade nella realtà delle vicende raccontate. Nella mafia le parole usate sono sempre le stesse, quelle che imbruttiscono il vivere e trasformano il bene in male.
Così l’amore di Andrea per Marilena – appartenenti a cosche che fa sempre si fanno la guerra – diventa l’ennesimo pretesto per continuare ad uccidere in nome di un onore che di onorevole non ha nulla.
Pippo Mezzapesa anima il film con attori di grande calibro; Michele Placido, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva (sempre appropriato) e poi ancora Francesco Patanè, Lidia Vitale anch’essa molto brava ed una inedita quanto incredibile Elodie che sembra nata per il cinema, con quella faccia che buca lo schermo, la sua fisicità accattivante, la voce adeguata alla narrazione e quel carattere che si presta a tratteggiare una storia nella quale il ruolo della donna è predominante se non essenziale, ad alcune vicende.
La cavalcata dei buoi, ripresa ad altezza reale, le inquadrature che scrutano, indagano animi e paure, indiscrete e affilate sono dettagli che fanno della pellicola un piccolo capolavoro.
Un film di scelte; molte sbagliate, alcune mediocri. Un film che si esprime in lingua madre, nel dialetto del Gargano e con espressioni crude, disdicevoli, e al contempo perfetto per il tema trattato.
Le feste, lo sfarzo e quel mondo tutto dorato impastato col sangue che è lo stemma caratteristico di famiglie mafiose che credono di poter essere fedeli ai loro codici d’onore, salvo poi scoprire che non tutto è come sembra.
Mezzapesa questo aspetto lo scandaglia con maestria e lo sottolinea anche senza il colore del sangue. Gli basta puntare la macchina da presa sui dettagli, sui profili, sulle mani sporche tanto quanto le coscienze.
Il segno distintivo dello sfregio del volto, è così evidente che tocca lo spettatore tanto da farlo empatizzate con chi della famiglia offesa, resta. E poi, altro giro, altra corsa, altro giro di vite, altra corsa a chi sopravvive.
E gli animali simbolo di stragi annunciate.
Il regista ha studiato bene luoghi, storie e simbologie. Ha ricamato la sua di storia, con l’autenticità dei codici mafiosi.
Le figurine con le facce della cosca avversaria, tenute su con le punes una volta “finito il lavoro”. Il perenne ricordare allo spettatore che quelle persone, quei mafiosi vivono, pascolano il gregge e uccidono, seguendo un ordine cronologico dall’alba al tramonto.
La trasformazione dell’amore in odio, la cancellazione di ogni forma di rispetto, nella pellicola è sottolineata da un dettaglio. Tutto studiato alla perfezione. Ogni fotogramma è studiato e poi animato.
Di padre in figlio, in sorte la morte come unico bene da tramandare.
Molto bello il finale, che racconta il riscatto di colei che per amore mette tutto a rischio.
Il film è ispirato alla prima pentita di mafia del Gargano che ha fatto luce sulla malavita delle cosche. Oggi vive in una località protetta con tutti i suoi figli, che erano destinati ad uccidersi tra di loro, perché nelle loro vene scorreva sangue di famiglie diverse, ma oggi vivono felici con la loro madre.
“Ti mangio il cuore” è un racconto ben ricamato, ed ogni trama è realizzata in maniera da creare il giusto pathos.
Molto adeguata anche la colonna sonora, scritta da Elisa Elodie Joan Thiele ed Emanuele Triglia, interpretato da Elodie e Joan Thiele.